Yoga Sutra di Patanjali
Uno dei testi più celebri e influenti nella tradizione dello yoga, un’opera che ha attraversato i secoli ispirando praticanti, filosofi e ricercatori spirituali.
Questa raccolta di 196 aforismi, attribuita al saggio Patanjali e composta probabilmente tra il II secolo a.C. e il IV secolo d.C., costituisce una guida essenziale per chi desidera esplorare non solo lo yoga come pratica fisica, ma anche come percorso interiore e filosofico.
Perché studiare Patanjali?
In un’epoca dominata dalla frammentazione e dalla distrazione, gli Yoga Sutra di Patanjali possono diventare una bussola preziosa, un invito a ritrovare il centro e a osservare la mente con lucidità. Pur non legati a una religione specifica, propongono un linguaggio universale, capace di parlare a chiunque desideri esplorare la propria interiorità. Eppure, nel XXI secolo, la visione che Patanjali traccia con straordinaria precisione può sembrare difficile da realizzare pienamente. Proprio per questo, il suo insegnamento ci invita a ripensare lo yoga come una disciplina viva, capace di adattarsi al nostro tempo senza tradire la sua essenza: un cammino verso la consapevolezza e la libertà interiore.
Cosa troverai qui
Nel corso degli anni di pratica e studio dello yoga, ho approfondito diversi testi. Gli Yoga Sutra di Patanjali sono una grossa fonte di ispirazione e conoscenza per chi pratica Yoga e in questi anni ho letto in maniera approfondita il primo capitolo Samadhi-pada. Questi appunti, riflessioni e traduzioni non pretendono di essere accademici o esaustivi. Non sono uno studioso di sanscrito, ma un appassionato praticante di yoga che ha deciso di approfondire questi insegnamenti e condividerne i frutti. Gli appunti che leggerai sono nati dal mio studio personale, per elaborare queste riflessioni, mi sono affidato a fonti autorevoli come:
Risorse online varie
In particolare, il lavoro di Edwin Bryant ha svolto un ruolo centrale: ho tradotto alcuni passaggi del suo commentario, cercando di mantenere la forma dialogica e accessibile. In alcuni casi, troverai riferimenti a testi che ho citato senza approfondirli nel dettaglio, lasciando al lettore curioso la possibilità di esplorarli ulteriormente. Per uno studio approfondito consiglio la versione originale, disponibile anche in italiano.
Simple is great, because great is always simple
Il mio desiderio è condividere questo capitolo in modo diretto e pratico, come se fosse una conversazione tra praticanti. Ogni riflessione che leggerai non ha la pretesa di essere una “verità” definitiva, ma un invito a esplorare questi Sutra con curiosità e apertura.
Se trarrai ispirazione da questa fonte e nascerà una voglia di approfondire, mettere in discussione o sperimentare la tua pratica quotidiana, allora avrà raggiunto il suo scopo 🙏🏻
Samadhi Pada
Stabilisce il fondamento filosofico e spirituale su cui si basa l’intera pratica dello yoga. Attraverso la lettura di questo capitolo, il lettore è invitato a domandarsi cosa significhi davvero lo yoga nella propria vita e come esso possa guidarlo verso una maggiore consapevolezza e quiete interiore.
Il Samadhi Pada non è solo per chi pratica da anni, bensì offre insegnamenti preziosi per chiunque si trovi all’inizio del percorso. Pur trattando temi filosofici profondi, questi aforismi contengono una mappa pratica per comprendere e affrontare i moti interiori della mente.
1.1
अथ योगानुशासनम्
atha yogānuśāsanam
Atha=ora; yoga= yoga; anuśāsanam=insegnamenti
Qui iniziano le autorevoli istruzioni sullo yoga
In questo primo sutra Patanjali rende nota la materia che verrà descritta, lo yoga. Non è una cosa nuova in quanto dalle Upanishad nascono 6 differenti correnti che trattano concetti derivanti dalla stessa matrice ma con focus e conclusioni differenti, è quindi utile specificare il tema che si vuole trattare.
Per comprendere i sutra bisogna analizzare ogni parola nel suo significato poetico, etimologico, filosofico e collettivo.
Atha denota che quello che viene scritto in questo testo differisce dagli altri e va considerato come tale. Sembrerebbe anche che questa parola sia sacra e di buon auspicio
Yoga ci sono diverse interpretazioni di questa parola, molti la identificano come “unione”. In realtà il processo che cerchiamo di attuare attraverso lo yoga qui descritto è di divisione di atman - purusa da tutto il resto - prakriti. Il fine ultimo, noto come samadhi, è attuabile grazie alle tecniche descritte successivamente, che portano ad osservare la mente nelle sue 5 condizioni: dubbiosa-confusa-distratta-concentrata-distaccata. I due stati che ci interessa studiare per giungere al fine ultimo sono: concentrazione e distacco.
Anusasanam il prefisso anu indica che Patanjali non è l’inventore dello yoga ma che sta sistematizzando insegnamenti precedenti a lui. Il concetto che vuole esprimere, rimanda alla filosofia samkhya e all’idea che lo yoga, nella sua forma più completa, si può solo sperimentare e non studiare. Questo perché purusa o coscienza, va oltre l’intelletto, è indescrivibile in quanto pura esperienza e liberazione o distacco dal corpo fisico e dalla mente stessa. In questo modo si definisce yoga come la forma più alta di esperienza.
1.2
योगश्चित्तवृत्तिनिरोधः
Yogaścittavṛttinirodhaḥ
yogah= yoga; citta= mente; vṛtti= fluttuazioni; nirodhaḥ= bloccare
Lo yoga è la capacità di dirigere la mente verso un unico oggetto, mantenendosi in quella direzione senza distrazioni.
Per comprendere al meglio questo Sutra è necessario avere una conoscenza base della filosofia Samkhya. Se prima veniva espressa la materia di studio, qui viene data una vera e propria definizione di quello che è lo yoga secondo Patanjali
Secondo la filosofia Samkhya la realtà è il prodotto di due cose distinte
PRAKRTI la matrice di tutta la materia nell’universo
PURUSA la coscienza o consapevolezza
Il contatto di queste due entità è ciò che ha dato vita all’universo ed alla realtà per come viene percepita.
È IMPORTANTE COMPRENDERE CHE PURUSA È INTRAPPOLATA IN CITTA E ATTRAVERSO LO YOGA CERCHIAMO DI DISUNIRE QUESTE DUE ENTITÀ, LA VERA LIBERAZIONE DI PURUSA NON SI PUÒ DESCRIVERE IN QUANTO OGNI COGNIZIONE È FRUTTO DI PRAKRTI ED È LEGATA AD UN CONCETTO O IDEA MATERIALE
Citta viene percepita come entità unica ma in realtà si compone delle 3 evoluzioni della materia intellettuale
Buddhi (da BUDH, essere consapevoli, svegliarsi) intelligenza - sono le funzioni della mente legate alla conoscenza, giudizio, desiderio ed è il filtro più vicino all’essenza della consapevolezza. Attraverso la discriminazione si può ottenere la liberazione
Ahankara (da AHAM io, KARA colui che fa) ego - sono le funzioni della mente che ci danno un senso di identità e confinano la consapevolezza nei limiti di un corpo. Il corpo in cui la consapevolezza finisce, è frutto del ciclo di rinascite chiamato samsara
Manas (MAN credere, pensare) mente - sono le funzioni della mente legate all’aspetto sensoriale delle esperienze e funge da ponte tra il concetto di ego e intelletto. Attraverso i sentimenti e le sensazioni percepite dall’ego riusciamo ad elaborare intellettualmente
Vrtti si intende ogni attività mentale che coinvolge i tre aspetti di citta. É importante capire che sia citta che vrtti sono parte della materia considerata prakriti e che la liberazione che si vuole ottenere è proprio attraverso il distacco da queste fluttuazioni che modellano e danno forma alla nostra mente. Viene detto che se CITTA è il mare VRTTI sono le onde
In questo modo le VRTTI sono in grado di modellare CITTA e quindi la visione di noi stessi. Questo processo di plasmazione ed influenza, è ciò che crea una falsa idea in primis di noi stessi, in quanto ci identifichiamo con i pensieri che vengono elaborati dalla nostra esperienza ed è il limite più grande al cessare della sofferenza ed alla liberazione della coscienza che è intrappolata nella mente, forgiata dalle fluttuazioni che la modellano.
(La famosa frase di Cartesio “Cogito ergo sum” ha portato l'uomo occidentale a identificarsi con la propria mente invece che con l'intero organismo. Come conseguenza della separazione cartesiana, l'uomo moderno è consapevole di se stesso, nella maggior parte dei casi, come un io isolato che vive “all’interno" del proprio corpo. La mente è stata divisa dal corpo e ha ricevuto il compito superfluo di controllarlo; ciò ha provocato la comparsa di un conflitto tra volontà cosciente e istinti involontari. Ogni individuo è stato ulteriormente suddiviso in base alle sue attività, capacità, sentimenti, opinioni, ecc., in un gran numero di compartimenti separati, impegnati in conflitti inestinguibili, che generano una continua confusione metafisica e altrettanta frustrazione)
MI PIACE L’IDEA DI IMMAGINARE CITTA COME UN LABIRINTO CHE DIVENTA SEMPRE Più INTRICATO SE LE VRTTI PRENDONO IL CONTROLLO SU DI NOI, ATTRAVERSO L’IDENTIFICAZIONE CON ESSE. PURUSA è LO SPAZIO CHE RISIEDE NEL LABIRINTO E LA SUA LIBERAZIONE DIPENDE DA QUANTO INTENSA SI FA LA NOSTRA TRAMA MENTALE E QUANTI MURI VENGONO POSTI COME OSTACOLO E QUANTO INVECE LASCIAMO CHE LE VRITTI VIAGGINO LIBERE, SENZA RADICARSI IN CITTA
Per comprendere come la mente agisce è indispensabile suddividere prakrti nelle 3 qualità in cui è composta.
SATTVA - RAJAS - TAMAS
Queste 3 qualità sono presenti in ogni cosa, sempre. Quello che cerchiamo di fare attraverso lo yoga è ottenere una predominanza di SATTVA che è la qualità più nobile delle 3 ma è anche giusto osservare come le altre 2 siano indispensabili per la sopravvivenza in uno stato non ancora libero ed illuminato (rajas digestione energia, tamas riposo). Come in tutte le cose, quello che cerchiamo è un equilibrio che possa garantire una condizione consapevole e favorevole ad una conduzione sattvica della vita.
Ciò che Patanjali intende in questo sutra è: attraverso la concentrazione su un unico punto, diminuire gli effetti distorsivi e limitanti di rajas e tamas, in modo che la mente chiara e limpida nello stato di sattva possa realizzare la sua vera identità riconoscendo purusa come forma distinta a prakrti. Anche se poi viene detto che purusa per sua natura non mutevole non si può identificare in nulla, altrimenti perderebbe di senso e diventerebbe appunto prakrti, in quanto si identificherebbe in qualcosa. Dunque buddhi e sattva sono le forme più vicine alla liberazione ma pur sempre condizionate e legate a prakrti.
Nirodhah è quindi la cessazione di ogni attività che possa portare CITTA VRTTI ad identificarsi in qualcosa, seppur la forma più pura e libera. Per ottenere questo stato mistico è necessario prima esercitarsi nel fissare la mente su un unico punto e da li abbandonare ogni concetto di forma e materia per dissolversi nella coscienza universale
IL DILEMMA CHE DIVIDE LE VISIONI DI BUDDISMO, INDUISMO E JAINISMO SONO PROPRIO RIGUARDO L’ESISTENZA O MENO DI PURUSA. COME PUÒ ESISTERE QUALCOSA SENZA LA POSSIBILITÀ DI ESSERE MANIFESTA? VIENE PARAGONATA PURUSA AL FUOCO CHE INEVITABILMENTE HA BISOGNO DI LEGNA PER POTER ESISTERE, NEL MOMENTO IN CUI LA LEGNA FINISCE, IL FUOCO CESSA. A MIO PARERE IL CONCETTO DI FUOCO FA PARTE DI MAYA E QUINDI PRAKRITI: UN’ILLUSIONE CHE CI ALLONTANA DAL CONCETTO DI ASSOLUTO
1.3
तदा द्रष्टुः स्वरूपेऽवस्थानम्
tadā draṣṭuḥ svarūpe’vasthānam
tadā=dopo; draṣṭuḥ=colui che vede; svarūpe=nella sua stessa natura; avasthānam=dimora
Allora si rende manifesta la capacità di comprendere appieno e correttamente l’oggetto.
Dopo aver descritto lo stato di yoga come cessazione dei processi mentali, Patanjali rassicura il lettore dando chiarificazioni sulla natura della coscienza.
DRASTUH (radice drs, vedere) viene utilizzato in questo caso come sinonimo di purusa, “vedere” è inteso come manifestazione della consapevolezza
Diversi commentatori si pongono una domanda riguardo l’interpretazione di coscienza espressa dalla filosofia Samkhya e da Patanjali. Il dilemma si pone in quanto una volta realizzata la coscienza, cosa succede alla coscienza stessa?
Purusa continua ad esistere con la consapevolezza della sua stessa natura
Questo stato di consapevolezza nella sua purezza massima viene chiama asamprajnata samadhi. In questo stato si va oltre al concetto di conoscenza, in quanto la conoscenza necessita di un oggetto da conoscere. La manifestazione più pura invece non si aggrappa a nulla. La natura di purusa è di essere coscienza, cosi come la natura del sole è di splendere e non dipende o varia in alcuna circostanza.
VIENE SPESSO UTILIZZATA UNA METAFORA PER COMPRENDERE AL MEGLIO LA NATURA DELLA COSCIENZA CHE VIENE PARAGONATA AD UN CRISTALLO TRASPARENTE. NEL MOMENTO IN CUI VIENE POSTO UN FIORE ROSSO ACCANTO AL CRISTALLO, QUES’ULTIMO SI COLORA DI ROSSO MA ALLO STESSO TEMPO NON CAMBIA LA SUA NATURA TRASPARENTE. ALLO STESSO PURUSA MANTIENE LA SUA ESSENZA INDIPENDENTE DA CITTA E LE VRTTI CHE NAVIGANO AL SUO INTERNO. ATTRAVERSO LO YOGA SI COMPRENDE LA NATURA DI PURUSA CHE, DANDO VITA ED ALIMENTANDO CITTA E LE SUE VRTTI, VIENE ERRONEAMENTE IDENTIFICATA CON ESSE.
1.4
वृत्तिसारूप्यमितरत्र
vṛttisārūpyamitaratra
vṛtti=fluttuazioni della mente; sārūpyam=prendono la forma; itaratra=altrimenti
La capacità di comprendere l’oggetto viene sostituita dal concetto mentale dell’oggetto, oppure da una totale mancanza di comprensione.
Patanjali avvisa che quando l’anima (purusa) non è pienamente consapevole di se stessa, l’osservatore viene assorbito dalle cognizioni della mente.
Viene fatto il paragone in cui la mente è una calamita e l’anima il ferro che viene attratto quando passa in prossimità.
Il concetto è che le fluttuazioni della mente vengono presentate all’anima, che prende coscienza di esse ed erroneamente, la mente (citta), si identifica con queste fluttuazioni. Questa falsa percezione viene chiamata AVIDYA ed è la causa della continua sofferenza ed attaccamento al mondo materiale (Samsara)
Questo concetto viene espresso antecedentemente a Patanjali nelle chandogya upanisad in cui Indra (divinità celeste) e Virocana (divinità demoniaca) scoprono che conquistando atman possono governare l’intero universo Brahman. Chiedono quindi informazioni al saggio Prajapati, che riconoscendo le loro intenzioni decide di testarli. Il saggio dice alle due divinità che atman si trova guardando in una pentola d’acqua. Quando i due si accorgono del loro riflesso comprendono che atman risiede in loro, Virocana è soddisfatto e convinto che atman sia il corpo fisico, mentre Indra chiede chiarimenti in quanto consapevole che il corpo è permanente. Prajapati continuerà spiegando la vera natura di atman e di come liberarla.
La stessa incomprensione avviene per quanto riguarda la mente, che nella sua natura mutevole sperimenta diversi stati emotivi e ci porta ad identificarci in essi. Così come il riflesso della luna su una superficie di acqua mossa può far pensare che sia la luna a cambiare forma, quando in realtà non è per nulla affetta dalle oscillazioni dell’acqua.
Nella Gita viene detto “colui in grado di osservare che tutte le attività sono un prodotto di prakriti, e non dell’osservatore, allora si può dire che vede la realtà delle cose”
LO YOGA SERVE PROPRIO A LIBERARE LA NOSTRA VERA NATURA SENZA FARCI CONDIZIONARE DALLE EMOZIONI E DAGLI EVENTI CHE SONO UN PRODOTTO DEL MONDO MATERIALE.
Viene posta la domanda riguardo l’origine della sofferenza e se effettivamente sia eterna. La realtà è che comprendere l’origine della sofferenza non risolve il problema. Attraverso lo yoga impariamo ad affrontare il problema e a risolverlo, non a comprendere le sue origini.
1.5
वृत्तयः पञ्चतय्यः क्लिष्टाऽक्लिष्टाः
vṛttayaḥ pañcatayyaḥ kliṣṭā akliṣṭāḥ
vṛttayaḥ=vrittis fluttuazioni della mente; pañcatayyaḥ=five-fold; kliṣṭā=dannose; akliṣṭāḥ=non dannose
Ci sono 5 funzioni della mente. Ciascuna può essere di beneficio oppure causa di danno.
A differenza delle Upanishad che sono a “tema libero”, qui si nota la natura dei Sutra che invece sono più schematici nell’esporre le tematiche. Dal Sutra 1.5 all’ 1.12 Patanjali descrive le vrttis.
“SE CITTA È IL MARE, VRTTIS SONO LE ONDE IN COSTANTE MOVIMENTO CHE ASSORBONO LA NATURA DI PURUSA NELLA REALTÀ MATERIALE E ILLUSORIA DI PRAKRITI”
Esistono 5 categorie (pañcatayyaḥ) di elaborazioni mentali (vrittis) e possono essere utili (akliṣṭāḥ), almeno in prima parte, al raggiungimento dello stato di yoga, oppure dannose (kliṣṭā).
I meccanismi mentali sfavorevoli alla liberazione sono generati dalle 5 klesas (discusse nel secondo capitolo II.3) che sono gli ostacoli alla pratica di yoga: ignoranza, ego, attaccamento, avversione, attaccamento alla vita. Il termine klista deriva dalla stessa radice klis (tormentare, creare problemi). Queste tipi di vrttis sono considerate sfavorevoli perché sono il terreno fertile dove germoglia il karma, viste anche come il prodotto di rajas e tamas
Quando la mente è sotto l’effetto di vrittis dannose, la sua natura è di creare attrazione o avversione verso un oggetto e questo fa nascere un’azione, karma (dalla radice kr fare/lavorare) che ha un ciclo infinito. Karma è inteso come azione che scatena una reazione, giusta o sbagliata che sia ma pur sempre legata al mondo materiale ed al soggetto che l’ha eseguita. Questo ciclo infinito di azione e reazione ci lega al mondo materiale (samsara). É importante comprendere che ogni azione (sbattere gli occhi, respirare etc.) crea una reazione, ed ogni reazione crea una contro reazione che crea una contro-contro reazione e così via, Il karma non si lega quindi solo ad una vita ma viene portato in vite successive, nel secondo capitolo verrà spiegato come nulla è casuale riguardo la condizione in cui un soggetto nasce e le sfide che dovrà affrontare. QUINDI IL KARMA CHE TIENE LEGATA LA NOSTRA CONSAPEVOLEZZA AL MONDO MATERIALE E LONTANA DALLA SUA NATURA, È GENERATO DALLE VRTTIS E LE VRTTIS A LORO VOLTA SONO FORMATE DALLE KLESAS.
Nel percorso evolutivo è utile iniziare ad osservare quando siamo portati a compiere un’azione e quando invece agiamo per pura attività. Per limitare i danni del karma è saggio imparare ad agire consapevolmente e non per noia o spinti dal non senso.
Per quanto riguarda le vrttis non dannose, viene detto che sono frutto di una mente sattvica, ovvero una mente che riconosce la natura rajas e tamas e cerca di allontanarsi trovando pace in fluttuazioni utili alla crescita. Per una persona nuova a questo tipo di discernimento sarà difficile mantenere la mente concentrata e distaccata da fluttuazioni dannose, questo è considerato normale e migliora con la pratica e con lo studio di testi antichi. Anche queste vrttis come ogni altra azione, fanno nascere dei semi di reazione e delle impronte chiamate Samskaras. Se le azioni dettate da una mente disturbata da rajas e tamas, si manifestano in reazioni avverse, quelle generate da una mente sattvica si manifesteranno in reazioni e situazioni favorevoli al raggiungimento di samadhi. Più LA MENTE VIENE CONDOTTA IN UNO STATO SATTVICO E PIÙ SI RISPECCHIA NELLA VERA NATURA (PURUSA), CHE NON VIENE DISTURBATA DA DISTRAZIONI MATERIALI
Samskaras sono delle impronte che lasciano le vrttis nella nostra mente, nella psicologia e neuro scienza viene chiamata DMN default mode network. Ogni azione e pensiero si manifesta e prima di svanire lascia un’impronta, questo nel tempo fa si che la nostra mente mantenga le abitudini o le paure con le quali è stata nutrita. Le dipendenze sono un chiaro esempio di samskara, i ricordi e il subconscio pure, anche se quest’ultimo potrebbe contenere samskara di vite passate. Le impronte positive, se lasciate con costanza, possono cambiare le abitudini e quindi attraverso la pratica ci si prepara a creare una condizione favorevole allo stato ultimo di liberazione.
KLESA, VRTTIS, SAMSKARA E KARMA SONO TUTTE COMPONENTI DEL CICLO DI SAMSARA
Klista o Aklista vrttis hanno ruoli diversi stando a questo sutra, ma sono comunque entrambe da considerarsi come ostacolo alla liberazione di purusa in quanto sono attaccate ad un oggetto.
Nella Bhagavata Purana viene detto che “Gli ostacoli dello yoga devono essere liberati da sattva e sattva è eliminata da sattva stessa” sostanzialmente finche si vive e percepisce un mondo materiale si può essere liberi solo in parte, questo è il concetto di jivanmukta STATO DI LIBERAZIONE MENTRE SI VIVE IN UN CORPO FISICO.
1.6
प्रमाणविपर्ययविकल्पनिद्रास्मृतयः
pramāṇaviparyayavikalpanidrāsmṛtayaḥ
pramāṇa=giusta conoscenza; viparyaya=errata conoscenza; vikalpa=conoscenza immaginaria ; nidrā=sonno profondo; smṛtayaḥ=memorie
Le 5 funzioni sono: comprensione, errata comprensione, immaginazione, sonno profondo e memoria.
Qualsiasi attività mentale si può ricondurre a una di queste 5 categorie. Nei sutra successivi verranno spiegate indipendentemente.
1.7
प्रत्यक्षानुमानागमाः प्रमाणानि
pratyakṣānumānāgamāḥ pramāṇāni
pratyakṣa= diretta percezione; anumāna=deduzione; āgamāḥ=testimonianza da fonte attendibile; pramāṇāni= fonte della conoscenza corretta
La comprensione è basata sulla diretta osservazione dell’oggetto, sull’inferenza e sul riferimento a fonti autorevoli.
La prima delle 5 vrttis discussa da Patanjali è la conoscenza corretta e quindi epistemologica della realtà. La scuola dello yoga accetta 3 metodi per giungere a questa conoscenza (PRAMANA)
PRATYAKSA, la percezione dei sensi è posta in primis in quanto le altre due dipendono da essa. Quando percepiamo un oggetto esterno con uno o più dei cinque sensi possiamo percepire la sua natura generica visesa e la sua natura specifica samanya es. vedo un animale e riconosco essere un cane (visesa) e poi identifico la razza (samanya). Una volta identificata la natura dell’oggetto osservato, questo genera un’impressione nella nostra mente (citta) che si manifesta in una vrtti
ANUMANA è una deduzione basata su una conoscenza percepita (pratyaksa) grazie all’esperienza ed alla natura della mente di creare delle categorie di oggetti o esperienze basate sul vissuto, riusciamo a dedurre in maniera corretta alcuni eventi es. in presenza di fumo saremo certi che c’è o c’è stato del fuoco a crearlo, quindi possiamo dedurre che il fumo è sempre generato dal fuoco. Questo grazie ad una conoscenza corretta della natura del fuoco
AGAMA conoscenza tramandata da una fonte attendibile, l’esempio migliore riguardo questa conoscenza sono le sacre scritture che furono scritte da persone sagge ed affidabili. Sia per trasmissione orale che scritta, questo passaggio di informazioni genera le stesse vrttis percepite da chi tramanda a chi riceve. É anche vero che alcune tematiche trattate nelle scritture non sono percepibili in questa vita terrena ma in questo caso si fa affidamento alla fonte in teoria più attendibile di tutte Isvara (dio)
COME ANTICIPATO IL METEDO PIÚ ACCREDITATO È LA PERCEZIONE DIRETTA, CHE POI È LA NATURA EMPIRICA DELLO YOGA E RIMARRÀ PER SEMPRE IL BELLO DI QUESTA PRATICA
Un esempio più semplice e pratico è questo: immaginate di entrare in un ristorante affamati, non è leggendo il menù o ascoltando ed osservando i commenti e le reazioni degli altri commensali al cibo che riusciremo a soddisfare la nostra fame, ma mangiando direttamente il cibo.
1.8
विपर्ययो मिथ्याज्ञानम् अतद्रूपप्रतिष्ठम्
viparyayo mithyājñānamatadrūpapratiṣṭham
viparyayo=errore; mithyā=falsa; jñānam=conoscenza; atad=non quella; rūpa=forma; pratiṣṭham=stabilita
L’errata comprensione è la comprensione che viene considerata giusta finché condizioni più favorevoli non rivelino la reale natura dell’oggetto.
Un errore è quando si attribuisce un significato sbagliato a qualcosa che non è. Allo stesso modo viene visto errore la sovrapposizione di falsa conoscenza ad un oggetto (es se da ubriaco si vede doppio e vengono percepite due lune, questo produce una vrtti errata nella mente, fino a quando non si identifica la vera luna, un altro es confondere una corda con un serpente)
Errori nello yoga sono le 5 klesas: ignoranza, ego, attaccamento, avversione, attaccamento alla vita. Anticipate prima e analizzate nel dettaglio nel secondo capitolo
1.9
शब्दज्ञानानुपाती वस्तुशून्यो विकल्पः
Śabdajñānānupātī vastuśūnyo vikalpaḥ
Śabda=parola; jñāna=conoscenza; anupātī=conseguente a; vastu=oggetto; śūnyaḥ=privo di; vikalpaḥ=immaginazione
L’immaginazione è la comprensione di un oggetto basata solo su parole e verbalizzazioni, essendo l’oggetto assente.
In questo sutra Patanjali identifica l’immaginazione con un significato abbastanza sottile. Quello a cui si riferisce sono espressioni che hanno senso nella lingua parlata di tutti i giorni (Śabda jñāna anupātī) ma che in realtà non corrispondo alla situazione effettiva(vastu śūnyaḥ). Un esempio potrebbe essere l’espressione in cui si dice che il sole sorge e tramonta o che il tempo vola.
VIKALPA sono quindi metafore che anno appunto senso logico ma non riscontro reale.
Altre scuole di pensiero differiscono da Patanjali e non considerano vikalpa una vrtti a se stante ma la includono negli errori. Nello yoga, “vikalpa” differisce sia da “Pramana” che da “viparyaya” in quanto è una vrtti che seppure errata nella significato letterale è corretta nel senso logico.
RICORDIAMOCI CHE L’INTENTO DI PATANJALI STA NEL DARE ALLO YOGI ISTRUZIONI PRECISE PER COMPRENDERE PURUSA. PER POTER COMPRENDERE LA NATURA DI PURUSA BISOGNA PRIMA CAPIRE TUTTO CIO CHE NON È ATTRAVERSO OGNI MECCANISMO MENTALE ALLA QUALE POTREBBE RIMANERE IMPIGLIATA.
1.10
अभावप्रत्ययालम्बना वृत्तिर्निद्रा
abhāvapratyayālambanā vṛttirnidrā
abhāva=assenza; pratyaya=causa, contenuto della mente; ālambanā=supporto; vṛttiḥ=stato della mente; nidrā=sonno profondo
Il sonno profondo avviene quando la mente è sopraffatta dal torpore e non è presente nessun’altra attività.
Ci sono diverse opinioni riguardo il sonno profondo e se debba essere considerato vrtti oppure no. Nelle Chandogya Upanishad viene detto che durante il sonno profondo non si è coscienti di nulla e quindi atman o purusa, non essendo disturbata da nulla, sperimenta lo stato assoluto di Brahman. Patanjali invece sostiene che una volta sveglio, l’osservatore è in grado di riconoscere se ha dormito bene o male e quindi la mente si aggrappa ad una memoria creata nello stato di sonno, ovvero un’impronta (samskara) creata da un esperienza in citta.
Il sonno di cui si parla in questo sutra, non è quello in grado di generare sogni che, anche loro imprimono delle memorie e fanno quindi parte delle vrtti analizzate nel prossimo sutra. Rajas è la componente attiva che genera sogni, i sogni creano delle memorie e quindi impressioni.
Nidra, è inteso come sonno profondo dove la componente maggiore è tamas. In questo caso purusa è consapevole solo del nero, dell’oscurità
Nidra può essere interpretato come citta vrtti nirodaha ma non inteso come 1.2 in quanto nello stato di nidra vige tamas e nello stato di yoga vige sattva partendo da uno stato cosciente e attivo
Il commentatore ci informa che lo stato di sonno può essere controllato una volta raggiunto samadhi, esistono varie testimonianze di persone illuminate che dormono pochissimo.
Gli effetti del sonno possono essere diversi in base alle combinazioni
Tamas sattva sonno riposante - tamas rajas sonno disturbato - tamas tamas sonno che non rigenera
In questo sutra vengono introdotti due termini importanti che si ripresenteranno
PRATYAYA ha diversi significati: - Causa -Immagine di un oggetto fissata nella mente, cognizione LA DIFFERENZA TRA COGNIZIONE E VRTTI è CHE LE VRTTI SONO Più SIMILI AD UN FLUSSO MENTRE LA COGNIZIONE è ISTANTANEA E DISTINTA
ALAMBANA è un supporto utilizzato dalla mente per potersi focalizzare. Verranno dedicati altri sutra per comprendere quali sono i supporti utili ad ottenere il risultato voluto.
1.11
अनुभूतविषयासंप्रमोषः स्मृतिः
anubhūtaviṣayāsaṃpramoṣaḥ smṛtiḥ
anubhuta=sperimentata ; vishaya=oggetto dei sensi; asampramoshah=che non svanisce, ritenuta; smrtiH =memoria
La memoria è la ritenzione mentale di un’esperienza conscia.
Smrtih vengono inserite come ultime vrtti in quanto dipendono dalle precedenti, si possono creare memorie solo di esperienze vissute o percepite.
Patanjali descrive le memorie come impronte (smaskara) di esperienze percepite (anubhuta vishaya) che non svaniscono (asampramoshah)
Come visto nel sutra precedente, le vrtti vengono paragonate ad un flusso composto da singole immagini che prendono il nome di pratyaya. Queste immagini rimangono impresse nella mente e posso riemergere quando si ripete un’esperienza simile, ciò significa che sono fissate nella nostra mente e nel momento in cui vengono rievocate prendono il nome di memoria.
Es. se ho già sperimentato la forma, colore, odore di una rosa rossa, quando la mia mente incontrerà un fiore simile, rievocherà la memoria che poi verrà oscurata da un’altra esperienza ma farà comunque parte delle impronte vissute.
Citta può in questo caso essere paragonata ad un lago e le memorie/impronte/samskara alle pietre sul fondo: se l’acqua è ferma e calma (sattva) le pietre si vedranno facilmente, se mossa e ondosa (rajas) si farà più fatica, mentre se torbida (tamas) sarà quasi impossibile distinguerle. Le memorie quindi sono da considerarsi tali quando non vengono sprofondate da tamas e quindi quando non scivolano via.
1.12
अभ्यासवैराग्याभ्यां तन्निरोधः
abhyāsa-vairāgyābhyāṁ tan-nirodhaḥ
abhyāsa=pratica; vairāgyābhyāṁ=attraverso il non attaccamento; tat=loro (delle vrttis); nirodhaḥ=cessazione
La mente raggiunge lo stato di yoga attraverso la pratica e il distacco.
In questo sutra Patanjali introduce i due ingredienti necessari alla cessazione (nirodhaḥ) degli stati mentali (vrttis) che sono la pratica (abhyāsa) ed il distacco (vairāgyā). Nella Baghavad Gita VI.35 vengono citati gli stessi ingredienti utili al medesimo scopo. La definizione di questi due elementi viene approfondita nei sutra successivi.
Viene paragonata la mente ad un fiume che può scorrere in due direzioni opposte. La prima, trascina la mente verso i sensi e gli oggetti percepiti, sfociando nel mare di samsara in quanto nel percorso genera karma. Mentre la seconda è invertita grazie alla pratica ed al distacco dai sensi ed eleva la mente verso stati superiori che guidano alla liberazione.
Vista attraverso le qualità della mente, pratica e distacco favoriscono vrttis sattviche e minimizzano le rajasiche e tamasiche, le quali aumentano se siamo fragili verso la sensualità che ha sempre un prezzo da pagare.
1.13
तत्र स्थितौ यत्नोऽभ्यासः
tatra sthitau yatno-‘bhyāsaḥ
tatra=di queste (abhyasa e vairagya); sthitau=nella fermezza/concentrazione; yatnaḥ=impegno; abhyāsaḥ=pratica
La pratica è sostanzialmente il retto sforzo richiesto per avvicinare, raggiungere e mantenere lo stato dello yoga.
abhyasa è l’impegno nel concentrare la mente, concentrazione intesa come liberazione dalle fluttuazioni mentali. Il modo per giungere a questo stato è la pratica. É importante riconoscere che questo stato non accade per caso, è necessario impegno (yatna).
Viene introdotto il concetto di sadhana, ovvero la devozione ed impegno quotidiano nel portare avanti uno stile di vita che possa essere favorevole ad una conduzione sattvica. Il difficile per uno yogi è rimanere concentrato in una direzione senza farsi deconcentrare dalle continue interferenze accumulate nella vita vissuta e nelle precedenti esistenze.
1.14
स तु दीर्घकालनैरन्तर्यसत्कारासेवितो दृढभूमिः
sa tu dīrghakāla nairantarya satkāra-āsevito dr̥ḍhabhūmiḥ
saḥ=questo (la pratica); tu=infatti; dīrgha=prolungato; kāla=tempo/durata; nairantarya=senza interruzione; satkāra=riverenza; āsevitaḥ=coltivata/praticata; dr̥ḍha=fermo; bhūmiḥ=radicato
Solo seguendo a lungo la pratica corretta, senza interruzioni e con un atteggiamento positivo volenteroso, ciò viene ottenuto.
In questo sutra Patanjali fornisce gli elementi necessari per sostenere la pratica. Il primo requisito per essere inamovibili è nairantarya ,la pratica deve essere portata avanti senza interruzione. Nel momento in cui qualcuno pensa di aver raggiunto il fine dello yoga e di non averne più bisogno, dimostra il contrario. In secondo luogo la pratica deve essere portata avanti dīrgha kāla per un lungo periodo di tempo. Nella Gita viene detto che yatnaḥ, l’impegno alla pratica, da i suoi risultati dopo diverse vite e se la pratica viene coltivata con devozione satkāra āsevitaḥ. In fondo chi pratica yoga sta cercando di realizzare il fine della propria vita e questo non può accadere in maniera frivola o spensierata
La natura sattvica della mente può rimanere invariata se supportata dalla pratica, basta molto poco perché la natura rajasica a tamasica vadano a sopraffare la mente.
VIENE PARAGONATA LA MENTE AD UN GIARDINO, SATTVA RAPPRESENTA I FIORI BEN CURATI, COLORATI E PROFUMATI MENTRE LE ERBACCE E PARASSITI SONO RAJAS E TAMAS. IL GIARDINO PER MANTENERSI IN ORDINE E PRIVO DI ERBACCE DEVE COSTANTEMENTE ESSERE COLTIVATO CON DEVOZIONE, ALTRIMENTI LE ERBACCE SARANNO SEMPRE PRONTE AD INFESTARE. I SAMSKARA INFATTI SONO LATENTI ANCHE NELLA MENTE PIÙ LUCIDA, PER FAR SI CHE NON SI MANIFESTINO C’È BISOGNO DI COSTANTE PRATICA ED ATTENZIONE.
SRADICARE LE ERBACCE (SAMSKARAS) È POSSIBILE GRAZIE A PRATICHE MEDITATIVE, IL CONCETTO DI YOGA E DI PRATICA È PORTATO AL LIVELLO SUPERIORE IN QUESTO CASO E A MAGGIOR RAGIONE NECESSITA DI IMPEGNO, COSTANZA E DEVOZIONE PER UN LUNGO PERIODO DI TEMPO.
1.15
दृष्टानुश्रविकविषयवितृष्णस्य वशीकारसंज्ञा वैराग्यम्
dr̥ṣṭa-anuśravika-viṣaya-vitr̥ṣṇasya vaśīkāra-saṁjṇā vairāgyam
dr̥ṣṭa=visto, percepito attraverso i 5 sensi; anuśravika=udito, attraverso le scritture Vediche; viṣaya=oggetti dei sensi; vitr̥ṣṇasya=di uno che è libero da desideri; vaśīkāra=totalmente in controllo; saṁjṇā=consapevolezza; vairāgyam=distacco
Al livello più alto è assente qualunque desiderio, sia per i piaceri sensoriali sia per le esperienze straordinarie.
Patanjali descrive ora il distacco (vairāgyam) definendolo come assenza di desiderio verso gli oggetti dei sensi (viṣaya) es. persone del sesso opposto, cibo, beveraggio, potere. Questo tipo di distacco preclude ogni inclinazione sia ad accettare che a rifiutare questi oggetti anche quando sono disponibili. Il fatto di rifiutare in maniera troppo insistente potrebbe nascondere in realtà un attaccamento nascosto. Il vero distacco è totalmente indifferente in presenza o assenza di questi oggetti. vaśīkāra significa essere in pace, questo non significa che le sensazioni vengono annientate, come ad esempio il piacere sessuale, resta impresso sotto forma di samskara e per forza di cose tornerà a ripresentarsi, essere in pace significa appunto rimanere indifferente ed essere libero da questa sensazione.
Uno yogi in grado di potere di discriminazione, riesce a comprendere che ogni forma di piacere è temporanea e una volta svanita crea solo frustrazione. Consapevoli della legge del karma, si sviluppa la capacita di azione e indifferenza, ovvero il distacco.
Bhagavad Gita
Distaccato dal contatto esterno una persona trova felicità nell’anima. Questa persona, impegnata nella pratica dello yoga, sperimenta felicità eterna. I piaceri materiali nascono dal contatto e hanno un inizio ed una fine, sono quindi la fonte di sofferenza. Una persona saggia non è attratta da questo
Il fatto di rinunciare non implica l’ottenimento del risultato, come abbiamo già visto i samskara sono latenti nella nostra mente e possono essere rievocati, non bisogna scappare dalle tentazioni, ma essere in grado di rimanere indifferenti.
Si inizia creando distacco da ciò che si può vedere e percepire, una volta realizzato questo si inizia a lavorare sul piano emotivo e mentale, cercano di creare distacco anche verso queste idee.
Ci sono due tipi di oggetti dei sensi: dr̥ṣṭa ciò che può essere visto - anuśravika ciò che può essere sentito (in riferimento alle scritture vediche)
Si fa riferimento alle scritture Vediche che promettono una sorta di paradiso al quale si potrebbe sviluppare attaccamento. Viene tramandato da questi testi che le persone pie sono in grado di trasferirsi ad un piano superiore dove la vita è migliore, ma pur sempre relegata ad un corpo fisico e quindi alla produzione di samskara. Non bisogna sviluppare attaccamento verso questa realtà in quanto viene percepita da Patanjali come una trappola. Se è vero che il buon karma ci porta in “paradiso”è anche vero che il karma accumulato è destinato a terminare ed una volta che questo accade si torna sulla terra.
Patanjali in questo sutra muove una critica rivolta a tutte le religioni che incentivano i rituali al fine di un vantaggio terreno o extra terreno ma comunque materiale e temporaneo.
UNA PICCOLA OSSERVAZIONE VA FATTA IN RIFERIMENTO ALLA LINGUA SANSCRITA CHE DA IL GRADO DI IMPORTANZA IN BASE ALL’ORDINE IN CUI VIENE ESPRESSO LETTERALMENTE UN CONCETTO COME NEL SUTRA 1.7 pratyakṣānumānāgamāḥ pramāṇāni IN CUI LA CORRETTA CONOSCENZA SI ACQUISISCE IN PRIMIS CON L’ESPERIENZA DIRETTA pratyakṣa E COSì NEL SUTRA 1.12 abhyāsa VIENE POSTA IN PRECEDENZA A vairāgyam IN QUANTO LA PRATICA IN SE FA NASCERE DISTACCO, VICEVERSA NON SAREBBE POSSIBILE
1.16
तत्परं पुरुषख्यातेर्गुणवैतृष्ण्यम्
tatparaṁ puruṣa-khyāteḥ guṇa-vaitr̥ṣṇyam
tat=da questo (la rinuncia di cui si parla nel sutra precedente); paraṁ=più elevata; puruṣa=coscienza; khyāteḥ=conoscenza; guṇa=le tre guna – sattva, rajas, tamas; vaitr̥ṣṇyam=assenza di desiderio
Quando si è raggiunta la perfetta comprensione del proprio vero Sé non si è più disturbati dalle influenze distraenti, interne ed esterne.
Il distacco può essere rivolto a ciò che viene vissuto o percepito basandosi sulle sacre scritture, come viene descritto nel sutra precedente, oppure ad un livello più sottile e con una comprensione più profonda, si può giungere al distacco dalle guna (guna vaitr̥ṣṇyam) che sono la matrice di qualsiasi cosa di materiale (prakriti) . Un distacco di questo tipo è possibile solo grazie ad una comprensione di purusa (purusa khyāteḥ). Quando rajas e tamas non ci influenzano, la mente è in uno stato sattvico che si può paragonare ad una sensazione di felicità e trasparenza dei pensieri. In questo stato la mente è in grado di distinguere le tre guna e ciò che sono in grado di rendere manifesto, differenziandole da purusa, la consapevolezza. Questa condizione in cui la mente è in grado di discriminare la differenza tra le guna (prakriti) e la coscienza (purusa) è la funzione ultima e più elevata che una mente sattvica può ottenere. É importante notare che nonostante questa consapevolezza sia elevata, è pur sempre un prodotto di prakriti in quanto sattva è di per se una guna e come le altre due è soggetta a mutamento.
In questo sutra Patanjali descrive la più alta forma di distacco in quanto fa rifermento ad una materia estremamente sottile, rispetto al sutra precedente che si riferisce ad aspetti più grossolani.
Quando si giunge ad un distacco così elevato, la mente smette di reagire ai prodotti delle guna, in questo modo si smette generare ulteriore Karma e quindi avviene la liberazione dal ciclo di samsara.
1.17
वितर्कविचारानन्दास्मितारूपानुगमात् संप्रज्ञातः
vitarkavicārānandāsmitārūpānugamātsamprajñātaḥ
vitarka=assorbimento con la consapevolezza fisica; vicāra=assorbimento con la consapevolezza sottile; ānanda=benedizione; asmitā=assorbimento con il senso di “io”; rūpānugamāt=accompagnato dalle forme; samprajñātaḥ=samadhi con la mente concentrato su un oggetto
Allora l’oggetto viene gradualmente compreso nella sua totalità. All’inizio la comprensione è a un livello superficiale, col tempo si approfondisce e alla fine è completa. Raggiungere questa profonda comprensione è pura gioia. Allora l’individuo è così unito all’oggetto che dimentica ciò che lo circonda.
In questo sutra si iniziano a delineare i segni utili alla navigazione della mente. Come i simboli utilizzati nelle mappe, assumono un significato vasto e utile ad avvisare il viaggiatore riguardo pericoli o ostacoli nel percorso, così i termini utilizzati in questo sutra assumono un valore più profondo e comprensibile solo attraverso l’esperienza non attraverso lo studio.
Secondo alcuni commentatori i 4 stati di coscienza alterata descritti in questo sutra (Samprajñātaḥ samadhi) si servono di un supporto (alambana) sul quale la mente si concentra e crea una vrtti indisturbata (pratyaya). In questo modo si descrive uno stato avanzato ma non libero e ultimo, purusa infatti continua ad essere ma in maniera controllata e veicolata dalla mente che è prakriti.
vitarka: è il primo stadio dove la mente si concentra su un oggetto compreso nella sua forma fisica e grossolana
vicāra: è il secondo stadio dove ci si concentra sulla natura sottile dell’oggetto di concentrazione, la sua composizione intesa come particelle subatomiche e vibrazioni.
ānanda: rispetto ai primi due stati di samadhi, questo non riguarda l’oggetto su cui fissiamo la nostra attenzione che sia grossolano o sottile, ma riguarda gli organi con cui riusciamo a percepire questo oggetto. In questo stadio l’osservatore realizza quali sono gli strumenti utili all’osservazione e contempla la natura cognitiva della mente. Questo stato di contemplazione è possibile quando prevale sattva e secondo la Gita potrebbe essere mal interpretato come forma ultima di yoga, quando in realtà non lo è perché seppur in forma pura, la mente si concentra ancora su qualcosa di materiale e mutevole.
asmitā: questa parola letteralmente si traduce con “Io sono” in questo stato la mente si eleva nella forma più pura prendendo coscienza di esistere come coscienza e non come materia. A volte il termine asmita viene utilizzato con scopi diversi per precedere un oggetto o forma in cui ci identifichiamo “io sono grasso, magro etc,” mentre in questo caso ci si ferma solo al concetto di essere.
In questo sutra vengono descritte quattro forme di samadhi che utilizzano un supporto, successivamente verrano ulteriormente suddivise. La cosa importante descritta nei commenti di questi sutra è l’importanza non tanto dell’oggetto che utilizziamo come supporto ma la costanza nei suoi confronti, cambiare oggetto rende la mente inquieta e instabile. QUESTO CI FA CAPIRE L’IMPORTANZA DI ESSERE COSTANTI E FIDUCIOSI NEL PERCORSO, RICORDANDO CHE LE GRANDI DISTANZE SONO FATTE DI PICCOLI PASSI.
1.18
विरामप्रत्ययाभ्यासपूर्वः संस्कारशेषोऽन्यः
virāmapratyayābhyāsapūrvaḥ saṃskāraśeṣo’nyaḥ
viraama=cessazione; pratyaya=nozione, pensiero; abhyaasa=pratica; pūrvaḥ=precedente; saṃskāra=impressioni, impronte mentali; sheśhah=ricordo; anyaḥ=dell’altro (samadhi – asamprajnata samadhi)
Gli ordinari disturbi mentali sono assenti; rimangono però i ricordi del passato.
Il termine anya viene utilizzato per descrivere l’altro stato (asamprajnata samadhi) che a differenza di quello descritto nel sutra precedente (samprajnata samadhi), non ha alcun supporto della mente. Potrebbe essere che la scelta di definirlo come “altro” si voluta per accentuare il fatto che sia uno stato ineffabile, al di la di ogni pensiero o parola che possa ricondurre ad una qualsiasi idea materiale. Essendo uno stato ultimo, viene descritto anche come nirbija, ovvero senza semi. Quando resta solo la consapevolezza, non si producono vrttis e i samskaras che scatenano pensieri, memorie e karma, sono latenti. asamprajnata samadhi viene descritto come lo stato ultimo di realizzazione, superiore a qualsiasi concetto, immortale, infinito ed eterno.
virama-pratyaya viene descritto come ultimo pensiero prima del cessare delle fluttuazioni mentali. Viene paragonato ad una fiamma leggera prima che il fuoco si estingua e trovi pace.
1.19
भवप्रत्ययो विदेहप्रकृतिलयानाम्
bhava-pratyayo videha-prakr̥ti-layānām
Bhava=divenire, esistenza materiale, nascita; pratyaya=causa; Videha=senza corpo fisico; prakr̥ti-layānām=di quelli uniti in materia
Alcuni posseggono dalla nascita lo stato di yoga. Essi non hanno bisogno di pratica o di disciplina.
Ci sono diverse opinioni riguardo questo sutra controverso. Seguendo una corrente, si può intendere questo sutra come una continuazione del 1.17 in quanto lo stato di yoga qui descritto non può che essere quello di samprajnata samadhi poiché non è ancora avvenuta la liberazione di purusa da prakriti. Lo stadio di quasi liberazione indicato in questo sutra è connesso con un’idea di divenire (Bhava) quindi legato alla materia, ed è indicato come uno stadio raggiungibile anche da chi non pratica yoga.
Vengono qui descritte due categorie: videha coloro che non sono incarnati e prakr̥ti-layas coloro che sono fusi con la materia, il loro comune denominatore è che entrambi mantengono un’identità legata all’esistenza materiale. Come le persone si identificano in un corpo fisico, lo stesso fanno queste due entità ma in forma più sottile e meno grossolana. Lo stato di pseudo-liberazione qui descritto è possibile fino a quando i samskara latenti si riattavano, ricollegando questi esseri al ciclo di samsara.
Alcuni commentatori identificano i videha con esseri celesti che non si nutro di cibo ma degli aspetti più sottili della materia. Esistono diverse categorie di divinità e in questo caso si parla di satyaloka ,esseri che sono andati oltre la comprensione di samprajnata samadhi ma non hanno raggiunto la liberazione assoluta.
La seconda categoria qui citata (prakr̥ti-layas) include chiunque non si identifichi nei copro grossolano composto dai 5 elementi, ma in altre forme più sottili, comunque facenti parte di prakriti. Nel Samkhya Karika viene detto che chi si considera libero, in questo stato di fusione con la materia, è guidato dall’ignoranza e sarà destinato a tornare nel ciclo di samsara.
Bhava può essere inteso diversamente, ma qualsiasi sia il significato attribuito a questo “divenire”, la sostanza finale resta sempre una forma di prakriti e quindi nonostante la percezione sia superiore rispetto a chi si identifica nel corpo grossolano, non porta comunque alla liberazione. Questi yogis quasi perfetti, si possono considerare forme più evolute che non si fanno condizionare dalle citta-vrittis ma hanno comunque dei samskaras latenti che possono fruttificare. Essendo questo stato di illuminazione solo parziale, per queste due categorie (videha e prakr̥ti-layas) il percorso è a verso il samsara, in quanto i samskara latenti sono destinate e ritornare attivi.
1.20
श्रद्धावीर्यस्मृतिसमाधिप्रज्ञापूर्वक इतरेषाम्
śraddhāvīryasmṛtisamādhiprajñāpūrvaka itareṣām
śraddhā= fede incondizionata; vīrya = energy, strong will, smṛti= memoria, consapevolezza; samādhi= assorbimento verso un unico punto prajñā= discernimento; pūrvaka= preceduta da ; itareṣām= degli altri
Mediante la fede, che conferisce l’energia per ottenere la riuscita contro tutte le avversità, viene mantenuta la direzione. Allora la realizzazione dello stato di yoga è solo questione di tempo.
Questo sutra differisce dal precedente in quanto viene inserito il temine upāya-pratyaya. Lo stato in cui rimangono solo le impressioni del subconscio, può essere ottenuto dai bhava-pratyaya del sutra precedente attraverso prakriti. Oppure dagli upāya-pratyaya attraverso la pratica.
I mezzi utilizzati dai veri yogis per raggiungere questo stato, sono esattamente quelli indicati in questo sutra: fede, vigore, memoria, assorbimento in samadhi e discernimento. Il praticante che applica questi mezzi per la realizzazione, sarà libero dalla materia e non ricadrà nel ciclo di samasara come i bhava-pratyaya del sutra precedente.
Diversi commentatori descrivono questo sutra come un percorso che uno yogis necessita attraversare per giungere al suo obiettivo.
śraddhā la fede incondizionata viene interpretata in diversi modi: come chiarezza mentale, libera da ogni dubbio e direzionata verso l’obiettivo, la fede è il supporto in grado di farci compiere gli sforzi corretti e necessari; o come credo nei confronti della meta di questo viaggio (asamprajnata samadhi). La fede, così come una madre, supporta lo yogi fino alla fine ultima.
vīrya, dalla fede cieca nasce il vigore per portare avanti il percorso, per continuare a praticare. La spinta motrice per attraversare gli atti limbi dello yoga è la dedizione nella pratica
smṛti la memoria in questo caso è intesa come la capacita di manette sempre vivo l’obiettivo, in una mente indisturbata e attraverso lo studio costante delle scritture.
Il passo successivo è diventare uno con il nostro obiettivo ed entrare in uno stato di samādhi
Ora la mente è pronta per discernere prajñā la realtà purusa dalla materia prakriti.
ORA LA MENTE HA FINALMENTE COMPIUTO IL SUO SCOPO E NON HA Più NECESSITà DI OPERARE.
1.21
तीव्रसंवेगानामासन्नः
tīvrasaṃvegānāmāsannaḥ
tīvraḥ =appassionato, forte ; saṃvegaḥ = per quelli con intensità; āsannaḥ = vicino, prossimo
Più è intensa la fede e lo sforzo, più vicina è la meta.
La velocità con cui si giunge alla meta è direttamente proporzionale all’intensità e impegno che uno yogi dedica.
Nonostante venga citata solo l’”intensità”, i commentatori successivi danno maggiori gradi a questo sforzo, tīvraḥ è quindi suddivisa in gentilezza, moderazione ed intensità. Nel sutra successivo questi tre gradi verranno a loro volta suddivisi in tre sotto gradi. La realizzazione di yoga passa quindi attraverso nove gradi di impegno.
Che determina la rapidità e il grado di intensità, sono i samskara legati alle vite passate che vanno ad interferire e distrarre il praticante, rallentando la sua realizzazione.
In questo sutra viene detto che lo stato di liberazione asamprajnata samadhi è più vicino āsannaḥ per chi si impegna con maggiore intensità.
1.22
मृदुमध्याधिमात्रत्वात् ततोऽपि विशेषः
mṛdumadhyādhimātratvāt tato’pi viśeṣaḥ
mridu = leggero ; madhya = moderato ; adhimaatra = estremo, forte, intenso ; tataah = da queste; api = anche ; viseshah = specialità, tipologie
La profondità della fede varia inevitabilmente nei diversi individui, e in momenti diversi nello stesso individuo. I risultati rifletteranno queste variazioni.
Come preannunciato nel sutra precedente, l’intensità con cui uno yogi si applica nel percorso, può essere mridu leggera, madhya mediocre, adhimaatra intenso. E a loro volta si suddividono nelle stesse tre categorie, creando uno spettro di possibilità per classificare l’intensità di realizzazione. Come ci si può immaginare, maggiore l’impegno più rapida è la crescita.
Questo sutra potrebbe essere utile ad incentivare e motivare i praticanti, incoraggiandoli ad intraprendere la strada dello yoga con serietà e dedizione per i nuovi, e supportando chi è già in cammino dando un’ulteriore spinta e aiuto a non demordere.
A volte l’errore dei commentatori è di considerare i sutra singolarmente e in maniera isolata, come in questo caso. Ci sono altri versioni riguardo le intenzioni di Patanjali in questo sutra, che potrebbe in realtà allacciarsi ai tre precedenti, la parola tataah “conseguentemente” potrebbe infatti far intendere un collegamento con 1.19-22. Dove potremmo considerare mridu con 1.19 in cui vengono descritte esistenze immerse in prakriti ; madhya con 1.20 si identifica con le esistenze che praticano con fede, vigore etc e adhimaatra con 1.21 dove vengono indicate esistenze vicine alla realizzazione.
1.23
ईश्वरप्रणिधानाद्वा
īśvarapraṇidhānādvā
īśvara =Dio ; praṇidhānād =contemplazione; vā =anche
Offrire regolari preghiere a Dio con un sentimento di sottomissione al suo potere, consente certamente di raggiungere lo stato di yoga.
Per la prima volta in questi sutra Patanjali inserisce un elemento teistico. Il concetto di īśvara inteso come Dio non legato ad una persona, è già presente in scritture Vediche molto più antiche che risalgono fino al 1000 ac a differenza del termine bhagavan che si riferisce a divinità legate ad un’identità personale es. Shiva, Vishnu, Krsna.
Alcuni commentatori si chiedono retoricamente se esiste un altro mezzo di liberazione oltre la pratica ed il distacco ed in questo sutra viene confermato che la divinazione è (anche vā) una forma di liberazione. Essere devoti ad una forma suprema è un concetto antecedente a questi sutra ed ora viene ribadito ed inserito in questa filosofia. Il termine praṇidhānā letteralmente significa prostrarsi, mettersi al servizio. Non è una nuova conoscenza quella che ci insegna ad agire con la consapevolezza che dio è onnipresente ed è quindi utile, nonché saggio, prenderne atto ed agire di conseguenza, in questo modo lo stato ultimo di yoga è garantito.
Questa forma di contemplazione prende il nome di Bhakti yoga, molti commentatori riflettono sull’importanza della devozione nel percorso di uno yogi. A differenza dei sutra precedenti dove viene descritto l’impegno e intensità che uno yogi dovrebbe avere, lasciandolo “solo” in questo percorso, qui viene inserito un concetto che va a rasserenare il praticante, invitandolo si ad agire con impegno e dedizione ma anche a riflettere sulla potenza della consapevolezza di isvara.
É utile esaminare la presenza di questo concetto di Isvara all’interno degli yoga sutra.
In questa prima apparizione, Patanjali pone Isvara come una forma ulteriore alla realizzazione, ma non obbligatoria per l’ottenimento dello stato di yoga (anche se alcuni commentatori sostengono che purusa non si può rivelare senza la grazia divina). Le uniche informazioni che Patanjali ci fornisce riguardo la natura di Dio, sono racchiuse in alcuni dei prossimi sutra.
Il secondo contesto in cui Isvara torna ad essere nominato è all’inizio del secondo capitolo dove vengono descritte delle pratiche (kriya Yoga) di purificazione che andrebbero sempre compiute con devozione nei confronti di Dio.
Infine Isvara viene citato nel sutra II.32 quando vengono introdotti gli Yama e Niyama, discipline etiche e morali che fungono da guida per giungere al fine ultimo. In questo caso Isvara pranidhana è al termine di queste “line guida” e torna ad essere indispensabile per realizzare lo stato di yoga.
In questo testo ci viene quindi descritto Dio in diverse forme. Come essere superiore libero da ogni condizionamento, una forma di purusa immacolata in grado di vincere le leggi della natura, un elemento chiave da inserire in qualsiasi forma di pratica, che può essere contattato recitando la sacra sillaba Om e che ha il potere di liberare gli yogi che dimostrano devozione. Se in questo sutra specifico Patanjali rende opzionale la pratica di devozione al fine di giungere al samadhi, nei sutra successivi (sono 6 in tutti quelli in cui Patanjali cita Isvara) è chiaro l’orientamento e la direzione che Patanjali vuole prendere, descrivendo la devozione come un processo obbligato per chi vuole giungere alla liberazione.
Patanjali non vuole essere dogmatico, imponendo Isvara come oggetto di meditazione, ma allo stesso tempo sembrerebbe consigliare vivamente questa forma devozionale. In breve ci viene detto che si può giungere alla liberazione attraverso il controllo della mente con una pratica costante e distaccata, ma è più veloce ed efficace se si inserisce il concetto di Isvara nell’equazione.
Nella Bhagavad Gita (XII 1-4) Arjuna chiede a Krnsa chi è superiore tra chi sceglie di essere devoto a lui (Krsna)o chi sceglie di controllare la propria mente individualmente, la risposta di Krnsa sarà a favore di chi lo venera, ma anche chi si impegna individualmente otterà i suoi frutti.
1.24
क्लेशकर्मविपाकाशयैरपरामृष्टः पुरुषविशेष ईश्वरः
kleśakarmavipākāśayairaparāmṛṣṭaḥ puruṣaviśeṣa īśvaraḥ
kleśa=ostacoli alla pratica di yoga ; karma=azioni ; vipākā=maturazione, accessibilità; āśayair = dall’accumulo, deposito di samskaras; aparāmṛṣṭaḥ= immacolato, non toccato ; puruṣa= anima, coscienza ; viśeṣa= speciale ; īśvaraḥ= Dio
Dio è l’Essere Supremo le cui azioni non sono fondate sulla comprensione errata.
Questo è uno dei sutra a cui tutti i commentatori hanno dedicato parecchia attenzione. Patanjali introduce il concetto di Isvara come forma di purusa, ma una forma speciale (viśeṣa) diversa e distinta dalle altre forme di purusa.
Vengono descritte 4 condizioni che rendono Isvara speciale e libero dal samsara: kleśa ostacoli alla realizzazione dello stato di yoga (descritti nel secondo capitolo) ignoranza, ego, attaccamento, avversione, attaccamento alla vita; karma le azioni, belle o brutte che siano; vipākā le conseguenze che hanno le nostre azioni e infine āśayair ovvero la zona delle mente dove vengono accumulati i smaskaras, ed i vāsanās. Dove i primi rappresentano le impronte della vita presente ed i secondi (vāsanās) si riferiscono alle vite passate. Dunque Isvara essendo una forma speciale di purusa, non viene intaccato e macchiato da nessuna di queste condizioni.
A differenza degli yogis che sono riusciti ad ottenere la liberazione, il concetto di Isvara è superiore in quanto, questa forma di purusa, non ha mai avuto relazioni con queste condizioni/ostacoli appartenenti alle forme di esistenza umane. Qui il concetto di Isvara va oltre ogni legame e lo pone su un gradino più alto. Ci sono anche diversi modi di interpretare questa forma di coscienza divina, alcuni non reputano possibile associarla ad alcuna figura rappresentata da una persona, come invece viene fatto in altri testi (es. Krisna nella Gita) ma indipendentemente da queste ideologie, resta in comune il concetto di divino e di forma elevata e superiore legata a Isvara.
Il tema più importante, anche se non riguarda questo testo nello specifico, è cercare di comprendere quale delle due visioni di Isvara appartiene alla filosofia di Patanjali. Ci sono due modi differenti di intendere il ruolo di Isvara nella creazione: - Dio come causa materiale, al quale viene attribuita l’emanazione di tutto ciò che c’è di materiale - Dio come causa efficiente in cui non assume il ruolo di aver creato la materia che è eterna come lui, ma piuttosto di averla organizzata e sistemata in modo tale che il monda e la vita possano accadere. Non è chiara la posizione di Patanjali a riguardo, in quanto inserisce Isvara in un contesto legato alla meditazione e non alla creazione, anche se nel sutra I.27 associa la figura di Isvara alla sacra sillaba Om che viene a sua volta paragonato alla figura di Brahman, il creatore, portando in vantaggio la figura di Dio come cause efficiente.
Un tema interessante è anche cercare di capire se la figura di Isvara espressa da Patanjali, possa rifarsi ad una divinità nello specifico. Analizzate le forme di teismo dell’epoca e quelle a cui testi più antichi si sono fondati, i candidati non possono che essere Siva o Visnu. Questo argomento viene affrontato meglio nel secondo capitolo dove viene spiegato meglio il concerto di svadhyaya (studio di sé) dove lo yogi attraverso la recitazione di mantra e lo studio di scritture, trova la sua inclinazione ad una di queste due figure. Viene scartata la possibilità di legarsi ad altre forme minori in quanto non utili alla liberazione finale ma solo all’ottenimenti di vantaggi materiali e terreni, non interessanti per uno yogi. Non è chiara la posizione di Patanjali a riguardo ed è bello pensare che sia fatto di proposito per non limitare lo studio dei sutra ad alcuna forma devozionale che possa allontanarci dal lo stato ultimo per cui questo testo è nato. Yogaścittavṛttinirodhaḥ
Tornando al sutra, ribadiamo il concetto di onnipresenza e onniscienza di Isvara che , come forma speciale di purusa, non ha eguali. La sua esistenza è sostenuta dai commentatori e dalle sacre scritture. Nelle sacre scritture stesse vi è la presenza di Isvara, quando vengono associate a sattva nella sua purezza. La presenza di Isvara nelle scritture produce una sorta di ciclo dove Isvara adotta la forma più pura di sattva per elaborare scritture, le quali tramite la pratica e lo studio, ci riportano ad Isvara. Questo ciclo di cui Isvara fa parte, fa nascere un dubbio: se c’è conoscenza e desiderio di trasmettere nozioni tramite le scritture e se queste nozioni sono elaborate dalla mente, non è forse Isvara legato ad un concetto di prakriti? Non dovrebbe Isvara essere superiore ad ogni forma di ignoranza tra cui il desiderio e la conoscenza? A tal proposito viene preso a riferimento un verso della Gita IV.6
“Nonostante io non sia mai nato e la mia natura sia immortale
E nonostante io sia il Dio (Isvara) di tutti gli esseri
Si io vengo ad esistere grazie al mio potere
Modellando prakriti, che io stesso posseggo”
Nonostante Isvara sia associato a prakriti con libertà anziché con legame, esiste un desiderio di agire che crea karma ed è frutto di ignoranza nonché un legame al ciclo di samsara. Come può Isvara essere libero da questi legami e mantenere la sua forma pura e speciale? Ci sono versioni contrastanti a riguardo, alcuni commentatori sostengono che non ci sia nulla di materiale in Isvara, il desiderio, la conoscenza e la volontà di agire sono eterne e sempre presenti in Dio e non creano alcun legame o forma di ignoranza.
In questo sutra si possono notare le due grandi divisioni di pensiero riguardo purusa:
Dualista Sankhya e Yoga sostengono che ci sia una pluralità eterna di purusa, nella forma liberata e in quella legata al ciclo di samsara e quindi le diverse anime (atman) sono in cammino verso l’assoluzione con il tutto (brahman).
Monista scuola Vedanta che interpreta purusa come unica e singola forma che tutto pervade. Il concetto di diversità di anime, inclusa quella di Dio, è frutto dell’ignoranza che mantiene il legame con il ciclo di rinascite. Esisterebbe quindi una sola coscienza Brahman.
La più grande critica ad una visione monista è relativa alla possibilità di avere anime libere e legate al ciclo di samsara. Se la coscienza fosse unica, come sarebbe possibile che sia in parte libera in parte vincolata senza essere divisa?
Alcuni pensano che il legame tra prakriti e purusa è possibile solo grazie alla volontà di Isvara. In questo sutra si evidenziano pareri contrastanti riguardo questa natura, il che non è strano. La natura di questo testo è di assorbire e metabolizzare il concetto di yoga ed è normale che ci siano, a volte, opinioni differenti.
1.25
तत्र निरतिशयं सार्वज्ञबीजम्
tatra niratiśayaṃ sārvajñabījam
tatra =in lui ; niratiśayaṃ = insuperabile ; sārvajña=onniscienza ; bījam =seme
Egli conosce tutto ciò che è conoscibile.
Nonostante il termine onniscienza (sārvajña) implichi che un individuo conosca tutto e sarebbe quindi un ossimoro darne diverse declinazioni. Patanjali in questo caso vuole esprimere un concetto legato al modo in cui questa onniscienza viene ottenuta, dando ad Isvara un valore superiore ed insuperabile (niratiśayaṃ) rispetto a qualsiasi altro individuo.
Viene utilizzata la metafora del seme (bījam) che ha diversi gradi di germinazione, allo stesso modo l’onniscienza si sviluppa nel tempo andando poi ad includere la totalità nello stadio ultimo di questo processo di crescita che racchiude in se tutto il percorso. Nel seme infatti sono già presenti tutti gli elementi che portano alla creazione di una pianta, ma si manifestano gradualmente attraverso un processo di evoluzione. Una persona onnisciente è una il cui seme continua a crescere.
Ora si vuole differenziare l’onniscienza di un individuo rispetto a quella di Isvara: nei sutra successivi verranno descritti degli stadi in cui si possa raggiungere tale elevazione. Una volta raggiunta, si può paragonare alla conoscenza divina di Isvara?
La differenza tra ciò che si può ottenere attraverso lo yoga e ciò che risiede in Isvara è che un individuo deve trasformare il seme in una pianta mentre Isvara è già sia seme che pianta. Isvara trascende ogni idea di spazio e tempo, semplicemente é. Questo lo pone su un piano completamente diverso in quanto la sua presenza è ciò che rende possibile la trasformazione di ogni individuo che voglia avanzare con fede nel suo cammino evolutivo.
Viene usata un’altra immagine dove la conoscenza viene paragonata ad una candela (sattva) e il corpo fisico (tamas) alla lampada con dei buchi, attraverso i quali la luce può uscire. Il cammino di un individuo che ha fede nella luce che risiede al suo interno, è tale per cui la luce si possa sprigionare e piano piano eliminare sempre più filtri, fino a rendere la luce completamente libera svestendosi del corpo fisico e i limiti che ne dipendono. Isvara è invece la candela, senza filtri, che irradia luce. La sua natura è di esistere come fonte benefica all’evoluzione, la sua conoscenza è suprema ed accessibile ai devoti che con impegno si adoperano per liberarsi dai cicli di samsara per diventare luce pura.
1.26
स पूर्वेषामपि गुरुः कालेनानवच्छेदात्
sa pūrveṣāmapi guruḥ kālenānavacchedāt
pūrveṣām= degli antichi ; api= anche; guruḥ =insegnante, maestro; kālena= dal tempo; anavacchedāt= perché non è limitato o condizionato da
Dio è eterno. In realtà, Egli è il primo maestro. Egli guida tutti gli insegnanti del passato, del presente e del futuro.
In questo sutra Isvara viene posto in una posizione superiore rispetto ad altre divinità secondarie, come Brahma colui che creò le forme del mondo ma non la sostanza di cui sono fatte le forme, che sembrerebbero essere soggette al ciclo di samsara e lo scorrere del tempo, avendo quindi una permanenza limitata e soggetta alla morte. Isvara è eterno, non soggetto a nascita o morte e non influenzato dallo scorrere del tempo.
Cos’è il tempo secondo lo yoga? É il movimento delle gunas di prakriti, ovvero il movimento della materia. Il giorno è il movimento del sole nei cieli, la stagione il movimento della natura, l’anno il movimento della terra intorno al sole, la vita il movimento del corpo negli anni, una civilizzazione o epoca il movimento di persone ed eventi e la costruzione di edifici che infine crolleranno e torneranno a fare parte della materia. Tutto in Sankhya e Yoga non è nient’altro che la relazione del movimento sostenuto dalla materia.
Le qualità che muovono la materia determinano anche il modo in cui questi movimenti vengono percepiti, attualmente stiamo vivendo una fase dove le menti sono governate da qualità che non permettono di comprendere la saggezza e gli insegnamenti dei grandi maestri, motivo per cui l’evoluzione della specie umana sta andando incontro ad una pesante crisi.
La salvezza risiede appunto nella fede in Isvara che, non essendo soggetto al tempo, può creare consapevolezza nei cuori di chi ha fede e devozione in lui.
Alcuni commentatori utilizzano questo sutra per sottolineare la visione differente rispetto all’individualità dell’anima ātman, rispetto alla visione advaita Vedanta che sostiene essere parte della coscienza universale puruśa. Viene usata l’immagine del fuoco e della scintilla. Dove secondo lo yoga la scintilla è parte del fuoco ma comunque ha una sua identità, mentre secondo il pensiero advaita Vedanta la scintilla si è solo distaccata dal fuoco ma fa parte di esso.
1.27
तस्य वाचकः प्रणवः
tasya vācakaḥ praṇavaḥ
tasya = il suo ; vācakaḥ= designazione; praṇavaḥ = la mistica sillaba Om
Nel modo più appropriato alle qualità divine. Il suo appellativo è la sacra sillaba Om
Patanjali constata che Isvara può essere rappresentato dalla sacra sillaba Om che viene qui citata con il sinonimo praṇavaḥ. Anche in altri testi precedenti Brahman (il termine più comune per descrivere la Verità Assoluta nelle Upanishad) ha un incarnazione sonora nella sillaba Om. Le Mundaka Upanishad descrivono Om come l’arco, il Sè come la freccia e Brahman come il bersaglio che deve essere colpito, come verrà descritto anche da Patanjali nel prossimo sutra. Nelle Svetasvara Upanishad viene detto che attraverso la pratica (abhyāsa) della meditazione sulla sillaba Om, si può entrare in contatto con il divino. É molto probabile che Patanjali, in quanto studioso faccia riferimento ad Isvara dandogli lo stesso significato che Brahman e il Divino acquisisce nelle Upanishad. Sorge il dubbio in quanto nella tradizione indiana, spesso le parole assumono significati diversi in base al contesto in cui vengono usate. Come ad esempio la parola lampada può sostituire il concetto di luce in quanto si assume che ovunque ci sia una lampada, per forza ci sarà presenza di luce.
Trattandosi in questo caso di un concetto estremamente importante, ci si chiede come sia possibile che un suono, appartenente alla materia (prakriti) possa rievocare un concetto così assoluto e divino come Isvara e come attraverso l’intonazione di questo suono si possa sprigionare un potere così divino. Viene ora paragonato il suono dell’Om al fuoco che permea una palla di ferro, una volta che una palla di ferro viene infuocata, acquisisce tutte le qualità del fuoco. La palla ed il fuoco rimarranno comunque due identità distinte. Allo stesso modo quando l’Om viene pronunciato si permea di Isvara ed acquisisce tutte le sue qualità divine. Il suono Om e Isvara rimarranno anche loro due identità distinte. Essendo la mente fatta di materia (prakriti) non potrà aggrapparsi a qualcosa di più sofisticato della mente stessa, entrerà quindi in contatto con il suono Om che pure è fatto di prakriti. Il concetto interessante precedentemente espresso ci fa comprendere che Isvara è investito totalmente nel suono Om e di conseguenza renderà accessibile la sua forma assoluta purusà attraverso una percezione materiale.
C’è chi sostiene che questo suono divino venga reintrodotto nell’umanità ad ogni nuovo ciclo di creazione da esseri onniscienti che si riescono a connettere a vite passate. La sensazione è che non ci siano altre parole che possano assumere questo potere così forte nel calmare la mente. La conformazione della sillaba che grazie alla presenza di due vocali ed una sola consonante (AUM) da la possibilità di essere pronunciata in maniera prolungata e con continuità, fa si che il suono muova dalla gola al cervello dove è in grado di creare uno stato di contemplazione. Non c’è dubbio che questa pratica di ripetizione dell’Om sia da secoli presente nella cultura indiana e che sia tutt’ora una delle forme di meditazione più diffusa.
Il termine praṇavaḥ scelto per indicare la sillaba Om in questo sutra, secondo alcuni commentatori, potrebbe indicare degli elementi molto interessanti anche se non per forza etimologicamente corretti. Il prefisso pra , potrebbe stare per prakarsena , “perfettamente”; mentre nava è una derivazione della radice nu, che in terza persona passiva sarebbe nuyate, “colui che è pregato\adorato”. Dunque attraverso la ripetizione di Om (japa), Isvara è perfettamente adorato. In alternativa si potrebbe sostituire il vah di pranavah con dhā, in questo caso pranidhā vorrebbe dire, “arrendersi al divino”.
Un altro commento interessante è in riferimento al termine Isvara che nelle tradizioni Hindu è un termine generico per indicare una delle forme di creazione divina tra Visnu, Shiva e Krishna che in realtà rivendicano il concetto di Isvara nei testi epici. Nel tempo si sono sviluppati dei movimenti che si identificano maggiormente con una di queste tre figure e di conseguenza esistono mantra che fanno riferimento al concetto di Isvara ma con una denominazione più specifica: Visnu/Narayana Om Namo Nārāyanāya ; Shiva Om Namah Shivāya ; Krishna Om Namo Bhagavate Vāsudevāya anche il mantra Hare Krishna sembrerebbe avere lo stesso scopo. Il punto è che anche nelle più nuove e moderne visioni, il mantra om è il più diffuso per chi porta avanti una pratica devozione Bhakti.
1.28
तज्जपस्तदर्थभावनम्
tajjapastadarthabhāvanam
taj=questo (della sillaba Om) ; japah= ripetizione; tat= questo (della sillaba Om), artha= significato; bhāvanam= soffermarsi
Per entrare in contatto con Dio occorre rivolgerci a lui in modo appropriato e riflettere sulle sue qualità
Continuando la discussione sulla sillaba Om, Patanjali fornisce ora istruzioni su come fissare la mente in Isvara.
In fondo Isvara è sinonimo di purusa, come può quindi la mente che è prakriti soffermarsi su purusa senza cadere in alcuna fluttuazione legata alla mente (vrtti)?
Om è considerato già in testi antecedenti come il “miglior supporto” (ālamabana) per la mente in meditazione:“quando uno conosce questo supporto, uno trova rifugio in Brahaman”. La recitazione di Om viene chiamata japa, un termine vedico che veniva usato per descrivere la recitazione di mantra da parte dei monaci. Viene detto che attraverso la continua recitazione del mantra om e la contemplazione del suo significato artha, la mente dello yogi diventa focalizzata sull’obiettivo di qualsiasi pratica di Yoga. “ Da svādhyāya (recitazione di mantra), lascia che lo yoga venga praticato, a dallo yoga lascia che sia praticata la ripetizione di mantra; dalla perfezione in entrambi, la forma suprema di ātman può risplendere”. Attraverso questa citazione si comprende il termine bhāvana, soffermarsi, che in questo sutra rappresenta la condizione in cui la mente viene portata a permearsi in un oggetto (om) ancora ed ancora fino ad escludere tutti gli altri oggetti possibili. Questa pratica devozionale di japa fa in modo che la mente venga totalmente assorta nell’oggetto venerato non lasciando spazio ad altro. Come quando si pensa alla parola “mucca” e nella mente sorge un immagine di questo animale, allo stesso modo ripetendo Om appare la figura divina di Isvara. Continuando a praticare japa, i samskaras (impronte mentali) assumono la forma di Isvara e questo conduce al samadhi.
C’è chi sostiene che si possa arrivare ad un incontro faccia a faccia con Isvara attraverso la pratica di japa e che non ci si fermi quindi solo ad un concetto mentale, ma ci sia effettivamente un incontro effettivo.
Ora viene fornita una correlazione affascinante sui vari stadi di samadhi e la pratica di japa: vengono suddivisi gli stadi di vitarka e vicāra samadhi in forme sa (con) e nir (senza) (spiegati successivamente I.42-44)
Nel primo stadio si savitarka, Om appare mischiato ad un idea ed un significato convenzionale legato a concetti che si fondano su immagini mentali di Isvara derivate da raffigurazioni o narrazioni.
Nel secondo stadio di nirvitarka queste convenzioni si indeboliscono ed iniziano a mostrare la vera natura di Isvara slegata da alcun concetto materiale. Questo stadio non si può infatti descrivere ma solo sperimentare.
Nel terzo stadio di savicāra , la ripetizione del mantra entra ancor più nel profondo e lo yogi penetra nell’essenza del suono e inizia a percepire Isvara come corpo che consiste di pura sattva. In questo stadio lo yogi è talmente immerso in Isvara che non riesce più a separare la sua esistenza da quello che sta sperimentando. Torna comunque il concetto di advaita Vedanta e dualismo, nonostante l’esperienza sia di unione, l’anima dello yogi non perde la sua individulità.
Nell’ultimo stadio di nirvicāra, la comprensione ed assorbimento in Isvara sono epurati da qualsiasi concetto legato allo spazio e tempo.
1.29
ततः प्रत्यक्चेतनाधिगमोऽप्यन्तरायाभावश्च
tataḥ pratyakcetanādhigamo’py antarāyābhāvaś ca
tataḥ = da questo ; pratyak= interno; cetana= consapevolezza ; ādhigamah = realizzazione; api= anche; antarāya= interruzioni, ābhāvāh= assenza; ca= anche/allo stesso modo
Col tempo, l’individuo percepirà la sua vera natura. Non sarà più disturbato dagli ostacoli che possono presentarsi nel suo progresso verso lo stato dello yoga.
Secondo Patanjali, il risultato della sottomissione a Dio è in grado di liberare lo yogi dagli ostacoli-disturbi antarāya, facendo si che la sua consapevolezza interiore si possa manifestare pratyak - cetanādhigamah. Allo Yogi è garantita la visione della sua consapevolezza puruśa dalla grazia di Isvara. Non solo questo, allo yogi viene conferita la grazia verso le malattie ed i problemi legati alla vita terrena. Sostanzialmente attraverso un assorbimento dedito nella sacra sillaba Om si attribuiscono benessere mentale e fisico nella vita materiale ed una comprensione della forma più sattvica di Isvara.
La forma più sattvica si può definire attraverso diversi aggettivi dove “purezza” è intesa come forma libera da vita o morte, “pacifica” come indisturbata dagli ostacoli (klesas esaminate nel sutra II.3), “indipendente” che va oltre vizio e virtù, “libera dal cambiamento” che non viene intaccata dalle conseguenza del karma.
Viene posto il dubbio di come si possa ottenere la liberazione del Sè attraverso la devozione di Isvara che è diverso dal Sè. Il punto è che Isvara è il tutto, rappresenta la completezza o coscienza suprema e di conseguenza attraverso l’assorbimento del tutto (Isvara) lo yogi è in grado di comprendere la parte (atman - Sè). Ci sono citazioni a riguardo in altri testi Brahn -naradiya Purana In cui la forma di Isvara a cui essere devoti ed in grado di rimuovere il velo di maya, è la figura di Visnu “Per chi è fedele a Visnu, colui in grado di rimuovere maya. Visnu rivelerà il vero Sè, che è differente da prakriti, esattamente come la luce rispetto alla lampada”
1.30
व्याधिस्त्यानसंशयप्रमादालस्याविरति- भ्रान्तिदर्शनालब्धभूमिकत्वानवस्थितत्वानिचित्तविक्षेपास्तेऽन्तरायाः
Vyādhistyānasaṃśayapramādālasyāvirati-
bhrāntidarśanālabdhabhūmikatvānavasthitatvāni cittavikṣepāste’ntarāyāḥ
Vyādhi= malattia ; styāna= apatia ; saṃśaya= indecisione, dubbio; pramādā = negligenza, noncuranza; ālasya = pigrizia ; avirati = mancanza di distacco ; bhrānti = confusione ; darśana = percezione; alabdha = non ottenimento ; bhūmikatva = posto, base, non ottenere una base (per la concentrazione) ; ānavasthitatvāni = instabilità ; citta = mente ; vikṣepāh = distrazioni ; te = queste ; antarāyāḥ = i disturbi
Ci sono nove tipi di ostacoli allo sviluppo della chiarezza mentale: malattia, apatia mentale, dubbio, negligenza, stanchezza, eccessiva auto indulgenza, illusioni circa il proprio reale stato mentale, mancanza di perseveranza e regresso. Sono ostacoli in quanto disturbano la mente e alimentano le distrazioni.
Patanjali indica i disturbi della mente di cui parlava nel sutra precedente, che saranno rimossi attraverso la devozione nei confronti di Isvara. Vengono chiamati “disturbi” antarāya invece che “ostacoli” perché con quest’ultimo termine è spesso usato per indicare le klesas , che sono molto più permanenti e radicate rispetto agli antarāya indicati in questo sutra. Viene detto che questi disturbi accadono insieme alle vrttis, i cambiamenti degli stati mentali, e quindi una volta rimossi questi disturbi non ci sarebbero più vrttis, di conseguenza si otterrebbe lo stato di Yoga: la cessazione di tutte le vrttis.
Ora vediamo quali sono questi nove disturbi:
Vyādhi, basandosi sulla traduzione antica dell’ayurveda, la malattia a cui si fa riferimento è un risultato del disequilibrio dei dośa (kapha, vāta, pitta) la malattia accade quando c’è un eccesso non richiesto di uno di questi dośa.
Styāna considerata una sorta di paralisi mentale, poco stimolo verso il lavoro
Saṃśaya dubbio, una mente che è portata a considerare i due aspetti di una decisione “sarà giusto oppure no?”
Pramādā poca cura, la mancanza delle basi per intraprendere il percorso vero la liberazione samadhi
Ālasya mancanza di forza mentale e fisica dovuta alla flemma e pesantezza (kapha), in inglese viene usata la parola “sloth” che sarebbe il bradipo.
Avirati mancanza di distacco, una mente troppo persa nel contemplare gli oggetti dei sensi, probabilmente questa è un’attitudine dovuta a schemi e dipendenze che si trascinano da tempo
Bhrānti-Darśana mal interpretazione, conoscenza errata, come confondere la madre perla per argento
Alabdha-Bhūmikatva fallimento nell’ottenere una base per la concentrazione, la liberazione non si può ottenere con una mente instabile ed incapace di concentrarsi
An-Avasthitatvāni instabilità, l’incapacità di mantenere lo stato di liberazione (samadhi) in diversi testi viene descritta la difficoltà di gestire i sensi e di mantenere uno stato di equilibrio, non solo per i “neofiti” ma anche per gli yogi più esperti
Questi disturbi sono le impurità dello yoga, frutto di rajas e tamas. Sono chiamati disturbi antarāya perchè si muovono, aya , e creano una divisione, anatra, nella pratica.
1.31
दुःखदौर्मनस्याङ्गमेजयत्वश्वासप्रश्वासा विक्षेपसहभुवः
duḥkhadaurmanasyāṅgamejayatvaśvāsapraśvāsā vikṣepasahabhuvaḥ
duḥkha= dolore, sofferenza ; daurmanasya = abbattimento; aṅgam-ejayatva= tremito dei limbi; śvāsa = inalazione ; praśvāsā = esalazione ; vikṣepa = distrazione; saha-bhuvaḥ= accade con, è accompagnato
Questi ostacoli producono uno o più dei seguenti sintomi: disagio mentale, pensiero pessimista, impossibilità di trovare una posizione comoda del corpo, difficoltà nel controllo del respiro.
Ad accompagnare i disturbi espressi nel sutra precedente, vi sono disturbi secondari che vengono qua espressi nel loro singolo
Duḥkha Il dolore o sofferenza può dipendere dal nostro corpo o dalla nostra mente come una malattia o un forte desiderio che non si avvera; da altre entità esterne come il dolore provocata da altri, dal volere divino (eventi naturali) come l’influenza dei pianeti o catastrofi naturali tipo terremoti
Daurmanasya abbattimento, perdita di motivazione nel momento in cui il risultato desiderato non arriva
Aṅgam-Ejayatva tremori del corpo, in questo caso si fa riferimento alla postura meditativa poco stabile ma si può certamente applicare ad altri contesti dove si perde controllo del corpo e arrivano tremori (come in arrampicata)
Śvāsa inalazione o recaka nelle tecniche di pranayama, consumare più aria del necessario crea scompensi sul piano mentale, fisico e fisiologico
Praśvāsā Espirazione o puraka , non è semplice trovare pace e fiducia in questa azione. Nonostante l’espirazione abbia effetti calmanti, risulta un azione sfidante in quanto ci sembra di non avere più il supporto dell’aria all’interno del nostro organismo. Cambiare paradigma riguardo al respiro piò essere di grande aiuto: Non è l’aria che entra ad espandere il corpo, ma è il corpo che si espande a concede all’aria di entrare; non è l’aria che esce a ridurre il volume del corpo, ma è riducendo il volume del corpo che l’aria può uscire. In questo modo siamo connessi all’azione del respiro e non al volume d’aria.
Questi ulteriori disturbi sono una conseguenza dei nove, espressi nel sutra precedente. Uno Yogi in grado di gestire la propria mente non verrà intaccato da questi disturbi e riuscirà ad essere fermo e stabile verso la sua direzione
1.32
तत्प्रतिषेधार्थमेकतत्त्वाभ्यासः
tatpratiṣedhārthamekatattvābhyāsaḥ
tat= queste ; pratiṣedha = eliminate, respinte, negate; artham= per grazia di; eka = uno ; tattva = oggetto; ābhyāsaḥ = pratica
Per contrastare detti ostacoli si conoscono altre pratiche, ciascuna reiterata in vista di un unico principio.
Questo sutra, se interpretato in un’ottica tradizionale induista, va a concludere il tema sulla pratica volta a fissare la mente (I.12) e riprende il concetto di mantenere un’attitudine di devozione verso Isvara. Fissando la mente su un unico punto eka-tattva, riferito al suono sacro Om, verranno rimossi tutti gli ostacoli alla realizzazione dello stato di yoga.
Se invece diamo un’interpretazione con una chiave di lettura Buddista, si apre una riflessione molto interessante riguardo al concetto di mente citta e di continuità/distrazione.
Secondo lo Yoga la mente dovrebbe concentrarsi su un unico punto al fine di rimuovere le distrazioni. Mentre secondo la filosofia buddista, la mente non può mai essere distratta, può solo essere concentrata su un oggetto per volta.
La cognizione, secondo i buddisti, è data dall’insieme di momenti che si susseguono uno dopo l’altro e che formano un flusso, un pò come un film che è formato da tanti fotogrammi. Il susseguirsi di idee, pensieri, sensazioni danno un effetto di stabilità e continuità ma restano comunque singoli eventi e non sono da considerare come un punto fisso ma come un insieme di punti. Questa visione andrebbe a sgretolare il concetto di mente espressa da Patanjali e va quindi esaminata per comprendere come in realtà si possa integrare alla visione dello yoga.
La distrazione per esistere ha bisogno di una mente permanente che viene appunto distaccata dal punto di osservazione, il controllo in questo caso sta nel mantenere l’osservazione costante. Se eliminiamo il concetto di mente permanete e lo sostituiamo con un’idea di mente focalizzata su un punto in costante cambiamento, non può più esistere il concetto di distrazione. Ma allora perché anche i buddisti promuovono la concentrazione?
In entrambe le visoni c’è un concetto di centratura volta ad un evoluzione, nello yoga questo si ottiene eliminando le distrazioni, nel buddismo mantenendo un flusso favorevole ad una continuità di pensiero che si muove verso un punto.
Ora c’è da comprendere cosa mantiene questo flusso verso un orientamento. Se effettivamente ogni momento è a se stante e non ha passato o futuro, i pensieri non si possono accavallare, qual è il legame che li tiene uniti?
Nella visione yogica è fondamentale che ci sia un concetto di mente permanente citta dove vengono impresse delle impronte samskara che sono il frutto delle azioni karma . Solo in questo modo si può creare un flusso di pensieri ed una logica che si possa comprendere in maniera cognitiva. In fondo gli yoga sutra di Patanjali servono proprio a navigare la nostra mente, a comprendere tutto ciò che è materiale prakriti al fine di raggiungere la realtà ultima che è purusa. Il concetto di flusso di pensieri vrttis è incluso in questa visione, ma ha bisogno di un supporto a cui aggrapparsi per esistere. Le pratiche di concentrazione qui proposte necessitano di identificarsi in un Io atman per essere elaborato, il concetto di esistere è presente.
La visione buddhista non può coesistere con queste idee, in quanto noi non esistiamo, siamo pura esperienza in costante movimento. Non c’è Io, c’è soltanto quello che sto sperimentando in questo momento che dura appunto il momento stesso, anitya. Tutto è in constante cambiamento
1.33
मैत्रीकरुणामुदितोपेक्षाणां सुखदुःखपुण्यापुण्यविषयाणां
भावनातश्चित्तप्रसादनम्
maitrīkaruṇāmuditopekṣāṇāṃ sukhaduḥkhapuṇyāpuṇyaviṣayāṇāṃ
bhāvanātaścittaprasādanam
maitrī= amicizia ; karuṇā= compassione ; muditā= gioia; upekṣāṇāṃ = equanimità ; sukha = felicità ; duḥkha = sofferenza; puṇya = virtù ; apuṇya = vizio ; viṣayāṇāṃ = verso gli oggetti ; bhāvanāta = proveniente dall’attitudine ; citta = mente ; prasādanam = lucidità
Nella vita di ogni giorno incontriamo persone più felici e persone più infelici di noi. Alcuni ci fanno del bene, altri ci danneggiano. Qualunque sia il nostro normale comportamento nei confronti degli altri e delle loro azioni, se riusciamo a provare gioia per chi è più fortunato di noi e a provare compassione per chi è più sfortunato, se riusciamo ad essere contenti per le cose buone e a non essere toccati dalle cose cattive, la nostra mente sarà in pace.
A differenza del sutra precedente dove venivano indicate differenze tra il concetto di coscienza nello Yoga rispetto al Buddhismo, in questo sutra vengono fatte notare delle similitudini relative alle quattro pratiche enunciate. maitrī amcizia karuṇā compassione muditā gioia upekṣā equanimità, corrispondo alle 4 brahma vihāras descritte in diverse scritture buddhiste e così nominate in pali mettā, karunā, muditā, upekkā.
In questo sutra Patanjali descrive una pratica utile ad ottenere lucidità mentale, un requisito fondamentale per entrare in uno stato di yoga.
Ci sono diverse interpretazioni riguardo le attitudini specificate in questo sutra, ma tutte convergono verso l’idea di far emergere un aspetto sattvico della mente in modo da potersi focalizzare e concentrare sulla realizzazione dello stato di yoga. Reagire e farsi coinvolgere dalle situazioni che ci circondano sono tutti aspetti rajasici e tamasici della nostra mente. Dare spazio a questi atteggiamenti, ci allontana dallo stato di yoga e generano karma negativo. I sentimenti di invidia, gelosia, odio, rancore, apatia non fanno parte di una conduzione sattvica e non ci lasciano tranquilli.
In questo sutra ci viene consigliata un’attitudine da portare nella vita di tutti i giorni, se non ci alleniamo ad agire in questo modo fuori dal tappetino, ci saranno poche probabilità di avere una mente lucida nella pratiche di meditazione.
1.34
प्रच्छर्दनविधारणाभ्यां वा प्राणस्य
pracchardanavidhāraṇābhyāṃ vā prāṇasya
pracchardana= dall’espirazione ; vidhāraṇābhyāṃ = dalla ritenzione; vā = oppure ; prāṇasya = del respiro
Anche attraverso l’emissione e la ritenzione del respiro, si può ottenere serenità mentale
In questi sutra Patanjali propone delle pratica utili a concentrare e a fissare la mente su un unico punto. È evidente che Isvara viene considerato l’elemento più importante al fine di raggiungere questo scopo. Ora e nei sutra successivi (I.34 fino a I.39), vengono suggerite ulteriori pratiche che possono essere più adatte ed idonee a diverse persone, a diversi contesti e a diversi momenti. Il prefisso vā ci fa comprendere che queste pratiche siano appunto delle alternative alla via consigliata nel sutra precedente. I.32
In questo sutra Patanjali invita ad usare il respiro prāṇa come metodo per stabilizzare la mente. L’espirazione pracchardana attraverso le narici e la ritenzione vidhāraṇā sono pratiche che vanno coltivate in modo specifico, viene consigliato di rallentare l’espirazione e di allungare la ritenzione, di nuovo l’idea di respirare di meno è sostenuta nei sutra. A differenza delle indicazione riguardo al pranayama che verranno introdotte nei prossimi capitoli e che sono rivolte a praticanti più esperti, la pratica qui proposta ha il solo fine di concentrare la mente.
Infatti respiro e mente vanno spesso di pari passo, se il respiro è calmo e naturale, se accade nell’addome e il petto rimane immobile, il sistema nervoso troverà pace e lo stesso accadrà nella mente. Queste pratiche portano ad uno stato di calma dove il corpo si sente rilassato e leggero, è molto importante abbinare la meditazione a queste pratiche , altrimenti i risultati saranno opposti e la mente diventerà disturbata.
QUELLO CHE INTERPRETO IN QUESTO SUTRA È CHE UN RESPIRO AGITATO COINCIDE CON UNO STATO DELLA MENTE AGITATA, PER FAVORIRE L’OSSERVAZIONE DI ENTRAMBI VA ABBANDONATA OGNI IDEA DI CONTROLLO CHE RISULTEREBBE UNE GENERAZIONE DI VRTTI. INFATTI SE MI STO FOCALIZZANDO SUL RESPIRO ATTRAVERSO IL CONTROLLO, CHE PARTE DALLA MENTE, NON POTRÒ ALLO STESSO OSSERVARE E CONOSCERE I MIEI PENSIERI NATURALI. È COME SE INDOSSASSI UNA MASCHERA SOSTENUTA DAL RESPIRO.
1.35
श्रद्धावीर्यस्मृतिसमाधिप्रज्ञापूर्वक इतरेषाम्
viṣayavatī vā pravṛttirutpannā manasaḥ sthiti-nibandhinī
viṣayavatī = che contiene oggetto dei sensi ; vā = oppure ; pravṛttih= attività, inclinazione ; utpannā = cresce ; manasaḥ = della mente ; sthitinibandhinī = che causa concentrazione
Oppure, indagando la funzione dei sensi, si riducono le distorsioni mentali.
Mentre si potrebbe associare viṣaya ad uno dei cinque sensi, i commentatori attribuiscono un significato diverso in questo sutra. Riferendosi a viṣaya come esperienza extrasensoriale. Viene detto che concentrandosi sulla punta del naso, si può sperimentare un olfatto soprannaturale, concentrandosi sul palato, si vedono colori mai visti, concentrandosi sulla punta della lingua, sapori mai sperimentati, concentrandosi sul centro della lingua, un tatto sopraffino e concentrandosi sulla radice della lingua si possono sentire suoni inaudibili. Queste esperienze di concentrazione e osservazione profonda, sono le porte di ingresso al samadhi. Viene utilizzato il termine manas a differenza di citta, perché manas è la parte di mente che si collega ai sensi di percezione.
In questo sutra i sensi vengono identificati come supporto alambana alla concentrazione, se è vero che la ripetizioni di mantra (japa) è possibile in silenzio, qui viene dato più valore al suono effettivo del mantra e non solo al suono mentale.
In riferimento al sutra I.7, viene data ancor più importanza all’esperienza diretta attraverso ì sensi, grazie alla quale si può guadagnare ancora più fiducia nelle scritture sacre che descrivono appunto avvenimenti extrasensoriali nei quali è più facile credere se si hanno avuto esperienze simili.
Per riuscire ad entrare in stati così profondi di concentrazione e per riuscire a sperimentare esperienze simili a quelle sopra descritte, queste pratiche vanno portate avanti con costanza per almeno un paio di giorni, a digiuno e in un luogo dove non ci siano distrazioni.
1.36
विशोका वा ज्योतिष्मती
viśokā vā jyotiṣmatī
viśokā = privo di dolore ; vā = oppure ; jyotiṣmatī = luminoso, brillante
Inoltre, indagando la vita è ciò che ci fa vivere e troviamo sollievo dalle distrazione mentali. La mente si sente priva di dolore e luminosa
Questo sutra sembrerebbe continuare dal precedente, la frase sthiti-nibandhinī (ciò che causa fermezza nella mente) va integrata anche in questo sutra. Quindi la fermezza e chiarezza mentale si può ottenere attraverso viṣayavatī la contemplazione dei sensi, e|o attraverso esperienza prive di dolore viśokā e luminose jyotiṣmatī. Secondo Patanjali, ciò che rende queste esperienze prive di dolore e luminose, è l’assenza di rajas e tamas, le fonti di dolore ed oscurità. Sattva è invece luminosa e beata per sua natura.
Unendo i due sutra si può comprendere che attraverso l’ascolto della nostra intelligenza naturale, che risiede nell’istinto, ovvero la matrice dei sensi, possiamo davvero comprendere ciò che realmente siamo e il modo in cui interagiamo con la natura nella forma più sattvica e pura. Quando questa realizzazione accade, ci sentiamo esseri di luce e beatitudine.
Quando la mente citta si trova direzionata a meditare verso questo unico punto di io-sono e lo fa osservando la vera esistenza dell’osservatore, senza identificazione nella materia ma bensì nell’anima, si raggiunge lo stato di asmitā-samādhi precedentemente descritto nel sutra I.17. Uno stato in cui si acquisisce consapevolezza di purusa attraverso la facoltà più elevata del nostro ego. Da non confondere con lo stato di nirbīja-samādhi il fine ultimo dello yoga, dove purusa si riconosce in nient’altro se non se stessa.
1.37
वीतरागविषयं वा चित्तम्
vīta-rāga-viṣayaṃ vā cittam
vīta= senza ; rāga= desiderio ; viṣayaṃ= oggetto; vā= oppure ; cittam =mente
Oppure, la mente trova quite quando il plesso cognitivo è definitivamente allontanato dall’attaccamento.
Ora Patanjali parla dell’importanza di frequentare gente più elevata e di trovare un vero guru con il quale passare del tempo ed imparare anche semplicemente osservandolo. Infatti semplicemente contemplando le menti citta libere dal desiderio vīta-rāga , la mente stessa riesce ad assorbire queste qualità ed impara di conseguenza. Come la crescita per competizione delle piante, dove le piante più esperte e sviluppate, che hanno meglio compreso la strada verso la luce, sono in grado di guidare le altre e mostrare il medesimo percorso affinché le piante meno sviluppate arriveranno ad esserlo. Molti passi della Gītā ritornano a questo concetto e spiegano come si può identificare una persona effettivamente libera da ogni desiderio. È utile prendersi un attimo di tempo per riflettere sul tema devozione e sottomissione al guru, infatti negli ultimi anni sono stati diversi i casi in cui dei fantomatici guru illuminati sono entrati in contatto con il mondo occidentale e si sono attorniati di seguaci e devoti del quale poi si sono approfittati e hanno abusato. Secondo Patanjali, chiunque non rispetti ed abbia incarnato i concetti, descritti successivamente in questi sutra con il nome di yama e niyama, non può essere considerato guru ed è anzi un elemento di cui privarsi al fine della comprensione del vero sé e della nostra evoluzione. Trovare una persona di riferimento non è affatto facile e diventarla ancora di più, ciò che bisogna cercare e sviluppare sono qualità pure e sattviche e molto spesso questo coincide con la semplicità.
1.38
स्वप्ननिद्राज्ञानालम्बनं वा
svapna-nidrā-jñānālambanaṃ vā
svapna=sogno ; nidrā=sonno; jñāna=conoscenza ; ālambanaṃ=supporto; vā =oppure
Oppure, la serenità mentale si può poggiare sulla conoscenza che si trae dal sogno o dal sonno.
È interessante notare come ci siano diverse interpretazioni di questo sutra, esistono infatti diverse visioni anche se tutte si ricollegano alla realtà metafisica del mondo yogico.
Sognando Isvara , lo yogi si sveglia pieno di gioia. Isvara in questo caso viene associato a Shiva e dovrebbe apparire nel sogno come una luna in un posto appartato di una foresta isolata, che attraverso la sua maestosa bellezza ornata da fiori e gemme cattura lo sguardo e la mente dello yogi, il quale una volta desto può riportare e mantenere vivida questa visione nella meditazione. Va in questo caso aggiunto che per arrivare a suddetta visione, lo yogi dovrebbe sempre avere Isvara a mente anche nello stato di veglia. Sembrerebbe infatti che il sogno svapna accada quando i sensi sono spenti e le impronte di questi sensi (samskaras) sono accese. L a cosa interessante è che le impronte che si accendono durante il sogno si basano sulle percezioni sensoriali più evidenti e vivide percepite quando svegli.
Durante il sonno profondo nidrā, la mente è libera dai pensieri, considerato una forma di yoga (Yogaścittavṛttinirodhaḥ). Meditando su questo stato in maniera attiva, quindi da svegli, uno può ottenere chiarezza mentale che a quel punto è sattvica e consapevole e non tamasica, ovvero passiva.
Infine c’è chi sostiene che la conoscenza jñāna si può sviluppare anche da svegli perché in fondo così come nei sogni, ciò che ci circonda non è reale ed è da ripulire dalle illusioni (velo di maya) per arrivare alla vera realtà
1.39
यथाभिमतध्यानाद्वा
yathābhimata-dhyānād vā
yathā= basandosi su ; abhimata=ciò che si può concordare; dhyānāt= dalla meditazione; vā = oppure
Inoltre, qualunque indagine a cui va il nostro interesse può calmare la mente.
Ora capiamo quanto poco ci sia di dogmatico negli insegnamenti di Patanjali, che dopo aver suggerito diversi modi per fissare la mente, ci dice che in realtà qualsiasi oggetto a nostro piacimento yathābhimata può essere usato come supporto ālambana al fine di placare i pensieri e raggiungere una consapevolezza più elevata. A tal proposito va ringraziato Krishnamacharya e i suoi allievi per aver diffuso e reso lo yoga accessibile e milioni di persone grazie alla pratica di asāna che danno la possibilità di esplorarsi e conoscersi in modo più accessibile e attuale con il periodo storico che stiamo vivendo. Infatti ad oggi la prima connessione che mediamente viene fatta con lo yoga è proprio legata ad una pratica fisica, mentre fino ad un secolo fa non era affatto la associazione più immediata. Yoga era un concetto ben più spirituale e filosofico di una semplice ginnastica posturale. Se è un bene che lo yoga si sia diffuso grazie agli asāna, è anche un dovere diffondere la consapevolezza che non si tratta solo di ginnastica ma di uno strumento per fissare la mente e migliorarsi nel profondo.
1.40
परमाणु परममहत्त्वान्तोऽस्य वशीकारः
paramāṇu paramamahattvānto’sya vaśīkāraḥ
parama= il più distinto, il più grande; aṇu= atomo ; parama= ultimo, grandioso; mahattva= totalità della materia; antaḥ = secondo cui; asya=lui (dello yogi) ; vaśīkāraḥ= abilità
Quando si raggiunge questo stato, nulla più sfugge alla comprensione. La mente esamina e comprende il più semplice e il più complesso, l’infinito e il minuscolo, il percepibile e l’impercettibile.
Viene ora spiegato che la mente può fissarsi grazie a tutto ciò che si può percepire nella realtà manifesta, dagli oggetti più minuti paramāṇu, ai più enormi mahattva. Come verrà spiegato nei sutra successivi, considerando che la mente è potenzialmente onnisciente, può includere qualsiasi forma, specie e concetto. Attraverso questo controllo|abilità vaśīkāraḥ , non c’è nulla che lo yogi non possa raggiungere.
Nei sutra precedenti viene spiegato come fissare la mente, ma una volta che ciò viene compreso e realizzato, cosa ci aspetta? Per rispondere a questo Patanjali userà i prossimi sutra.
1.41
क्षीणवृत्तेरभिजातस्येव मणेर्ग्रहीतृग्रहणग्राह्येषु
तत्स्थतदञ्जनता समापत्तिः
kṣīṇavṛtterabhijātasyeva maṇergrahītṛgrahaṇagrāhyeṣutatsthatadañjanatā samāpattiḥ
kṣīṇa = indebolito; vr̥tti = le fluttuazioni della mente ; abhijātasya = trasparenti ; iva= come ; maṇeh= di un gioiello; grahītr̥ = colui che conosce ; grahaṇa = lo strumento di conoscenza; grāhyeṣu = l’oggetto di conoscenza; tat-stha = che è situato in quello; tad-añjanatā = che prende la forma di quello ; samāpattiḥ = completo assorbimento nell’oggetto
Tuttavia urge approdare alla concordanza, ossia alla condizione in cui gli effetti delle vorticosità sono quasi estinti: così è la gemma completamente trasparente, finalmente capace di prender la tinta di qualsiasi oggetto le sia posto dinnanzi, palesando la concomitanza che vi è tra coglitore, cogliere e colto.
Dopo avere considerato gli oggetti utili a fissare la mente, ora Patanjali torna (I.17) ad analizzare gli stati di una mente in meditazione, indipendentemente dall’oggetto osservato.
Quando la mente è libera da ogni processo vr̥tti, diventa pura come un cristallo maṇi. Le qualità di trasparenza abhijātasya del cristallo, fanno si che possa assorbire il colore dell’oggetto che viene posto al suo fianco tad-añjanatā. In uno stato meditativo avanzato, assume addirittura la forma di quell’oggetto.
Questa immagine del cristallo che assume il colore dell’oggetto che viene posto al suo fianco, ritorna spesso nella filosofia Hindu: la mente calma, pura e luminosa sattvica , quando libera dagli effetti distorsivi di rajas e tamas , brilla con l’oggetto presentato. Questo accade quando la mente è fissata su questo oggetto.
Patanjali ora annuncia che la mente può riflettere ed assumere le forme di qualsiasi oggetto: un oggetto esterno fatto di elementi grossolani o sottili grāhya, lo strumento di conoscenza diretta come i sensi di percezione grahaṇa, o l’intelligenza stessa grahītr̥, ovvero l’osservatore talmente assorto nella meditazione da giungere alla forma più consapevole di purusa.
1.42
तत्र शब्दार्थज्ञानविकल्पैः संकीर्णा सवितर्का समापत्तिः
tatra śabdārthajñānavikalpaiḥ saṃkīrṇā savitarkā samāpattiḥ
tatra = la; śabda = parola, suono; artha = significato; jñāna = saggezza, conoscenza ; vikalpah= con concettualizzazioni ; saṁkīrṇā= unite con ; savitarkā = con consapevolezza fisica; samāpattiḥ= assorbimento
All’inizio, a causa delle esperienze e delle idee passate, la nostra comprensione dell’oggetto è distorta. Tutto ciò che abbia letto, udito o sperimentato può interferire con la percezione.
Vitarka era espresso come il primo stato di samadhi nel stura 1.17. In questo e nel sutra successivo Patanjali amplifica il concetto suddividendo questo stato in due sottocategorie: sa- con vitarka, nir- senza vitarka.
Prendendo una mucca come oggetto di meditazione si può illustrare il concetto di samadhi indicato con savitarka.
L’oggetto fisico artha, in questo caso un animale in carne ed ossa che si nutre d’erba; la parola sabda, usata nel linguaggio comune per descrivere questo animale; l’idea jnana, che si produce nella mente di una persona quando ode la parola “mucca”, questa immagine mentale viene descritta come pratyaya nel sutra 1.10 o anche come impronta/samskara in altri sutra.
Quando uno yogi usa un oggetto es. mucca come supporto alambana per la meditazione, ma la sua consapevolezza di questo oggetto è confusa dalla parola che sta dietro al concetto di mucca, questo tipo di contemplazione è descritto come savitarkā samāpattiḥ , assorbimento di una consapevolezza sul piano fisico e materiale. In altre parole la sua consapevolezza in merito all’oggetto è ancora sottilmente sporcata dalla parola, idea ed immagine che quell’oggetto richiama śabdārtha-jñāna-vikalpaiḥ. Quindi savitarkā samāpattiḥ è fare esperienza di un oggetto unita saṃkīrṇā a un’idea o immagine mentale vikalpaiḥ.
Questo tipo di esperienza o osservazione non va confusa con il concetto di vrttis, in quanto non c’è un’elucubrazione voluta dall’osservatore ma è semplicemente un tipo di samadhi con una bassa percezione apara-pratyaksa. Stiamo comunque parlando di uno stato di samadhi dove le vrttis sono stabilizzate, anche se nel subconscio ci sono dei samskara ancora latenti che non danno però il via a processi intellettuali. Per comprendere meglio questo stato di samadhi, è utile inserire paragonarlo allo stato descritto nel prossimo sutra come nirvitarkā samāpattiḥ, ovvero la comprensione di un oggetto libera da parole, idee e immagini. Questa viene definita percezione suprema para-pratyaksa, ovvero una comprensione diretta dell’oggetto che non è vincolata da memorie samskara idee o immagini vikalpa.
1.43
स्मृतिपरिशुद्धौ स्वरूपशून्येवार्थमात्रनिर्भासा निर्वितर्का
smṛtipariśuddhau svarūpaśūnyevārthamātranirbhāsā nirvitarkā
smriti = memoria; pari-shuddhau = riguardo la purificazione; svarupa-shunya = natura propria; iva = come se; artha-matra = solo l’oggetto; nirbhasa = splendente ; nirvitarka = senza consapevolezza fisica
Mantenendo la mente sull’oggetto, le idee e i ricordi del passato recedono a poco a poco. La mente diventa trasparente come il cristallo e unita all’oggetto. Allora non c’è più il senso di un io. C’è pura percezione.
Viene spiegato che quando la mente viene epurata da tutte le memorie samskara, in termini di tutti i riconoscimenti legati all’oggetto di meditazione, o di tutti i nomi a lui attribuiti o anche riguardo le sue funzioni, smṛti-pariśuddhau, si può assaporare la vera essenza dell’oggetto, libera da ogni analisi cognitiva o dalla tendenza a voler identificare e nominare lo stesso, solo allora lo yogi ha ottunuto lo stato di nirvitarkā samāpattiḥ o nirvitarkā samādhi. In questo stato la mente lascia andare anche la sua natura propria di essere un organo di conoscenza svarupa-shunya, in sostanza la consapevolezza non si serve più della mente come strumento di canalizzazione di consapevolezza verso un oggetto. Praticamente non essendoci più alcun processo cognitivo, la mente si assorbe completamente nell’oggetto. Solo ora l’oggetto può splendere nella sua vera essenza ārtha-mātra-nirbhāsā, libero da etichette, categorizzazioni, o allocazioni nel grande schema delle cose.
È interessante notare come secondo lo yoga, la conoscenza di un oggetto sia più profonda nel momento in cui lo si osservi nella sua natura senza identificazioni o processi cognitivi nirvitarkā, mentre nel modo di ragionare più convenzionale, maggiori sono le informazioni e più la conoscenza viene considerata approfondita savitarkā.
QUESTO MI FA RIFLETTERE SUL MONDO DELL’HATHA YOGA DOVE LE POSTURE VENGONO ANALIZZATE ATTRAVERSO CRITERI DI ALLINEAMENTO, FORME O NOMI, DANDO IN QUESTO MODO UNA VISIONE MENO APPROFONDITA RISPETTO AL SENTIRE QUELLA POSTURA TRALASCIANDO TUTTO L’ASPETTO ANALITICO. L’INVITO DEI COMMENTATORI DEL SUTRA INFATTI È DI NON LIMITARSI AL SEGUIRE LE INDICAZIONI DI UN GURU, MA DI FARE ESPERIENZA PROPRIA ATTRAVERSO QUELLE FONTI CHE IL GURU METTE A DISPOSIZIONE.
1.44
एतयैव सविचारा निर्विचारा च सूक्ष्मविषया व्याख्याता
etayaiva savicārā nirvicārā ca sūkṣmaviṣayā vyākhyāt
etaya = con questo; eva = anche; savichara = con consapevolezza sottile; nirvichara = oltre riflessioni; cha = e ; sukshma= sottile; vishaya= oggetto; vyakhyata = sono definiti, descritti
Ciò si applica a qualunque oggetto e a ogni livello di percezione, tanto superficiale e generico che approfondito e specifico.
Torniamo a fare un premessa relativa all’utilizzo di alcuni termini che vengono usati per convenienza ma non possono esprimere il significato in quanto ciò che vorrebbero spiegare si può solo esperire, questo vale sia per la traduzione che per la versione in sanscrito utilizzata da Patanjali.
Vicārā Samadhi è il secondo dei 4 stadi di samadhi descritti in 1.17 e come Vitarka ha le due declinazioni, sa- con e nir- senza. La grossa differenza tra Vicara e Vitarka, è che nel primo caso si fa riferimento ad elementi grossolani, mentre nel secondo ad elementi sottili sūkṣmaviṣayā. Con sottile intendiamo la fonte o causa da cui qualcosa evolve. Inoltre il sottile è qualcosa di non percepibile dai sensi grossolani, ma da solo da qualcosa di ancor più sottile di se stesso. Stando alla filosofia Samkhya, si può fare esperienza di un oggetto basandoci sulla sua forma grossolana di cui è composto (acqua, terra, aria, fuoco, etere) oppure si può percepire penetrando la sua natura fisica e percependolo attraverso l’essenza che da vita agli elementi (suono, tatto, gusto, odore, vista) che sono fonti da cui gli elementi grossolani evolvono. Questa è la percezione che sorge in savicārā samadhi.
Una visione semplificata di quanto appena detto e sostenuta dalla scienza più moderna, si può fare attraverso un pezzo di ghiaccio, che può essere visto come un qualcosa di solido, oppure si può riconoscere la sua essenza di liquido, o ancora più sottile è l’idea di vapore solidificato. Volendo si può andare ancora più nel sottile dando un’interpretazione al ghiaccio, riconoscendo la sua natura di molecole di idrogeno e ossigeno e così via. La grossa differenza tra ciò che la scienza dimostra, sta nei mezzi. Infatti se da un lato sono necessari macchinari super evoluti, dall’altro c’è una comprensione talmente sottile di un oggetto che non necessita di strumenti, ma si basa sull’idea che tutto è composto della stessa sostanza e nell’immergerti in quella sostanza puoi farne esperienza.
Savitarkara, è fare esperienza della natura sottile di un oggetto, ma resta comunque inserito in un concetto di spazio e tempo.
Nirvicara, è uno stato dove la comprensione della natura di un oggetto è talmente assorbita da uscire dalla dimensione di spazio e tempo, che sono frutto della mente condizionata da prakriti. In questo stato di presenza profonda, l’oggetto si dissolve e diventa parte di un’unica vibrazione che pervade tutto ciò che gli è attorno.
Per riassumere i 4 stati di consapevolezza appena descritti possiamo prendere il Sole come riferimento:
Savitarka il sole è un oggetto composto da atomi di fuoco situato ad una certa distanza, con un certo nome ed uno scopo nel disegno Naturale
Nirvitarka il sole è un oggetto luminoso senza che venga associato un nome, una grandezza, distanza o scopo
Savicara ciò di cui il sole è composto sono particelle subatomiche, l’oggetto mantiene una localizzazione dell’universo e si manifesta nel presente
Nirvicara il sole è pura luce, senza colore, che pervade tutto in ogni istante al di fuori del tempo e dello spazio, in altre parole è una luce eterna e onnipresente.
Lo stesso processo di assorbimento appena descritto in relazione al sole, è valido per quanto riguarda la ripetizione del mantra Om. Viene detto che una ripetizione di questo mantra possa portare all’esperienza di Isvara, il divino.
1.45
सूक्ष्मविषयत्वं चालिङ्गपर्यवसानम्
sūkṣmaviṣayatvaṃ cāliṅgaparyavasānam
sukshma = impercettibile ; vishayatvam = le cose che hanno la natura di; cha = e; alinga = materia, prakriti; paryavasanam = concludenti, terminanti
Salvo il fatto che la mente non può comprendere la sorgente stessa della percezione, i suoi oggetti sono illimitati.
Nel contesto di questo sutra è utile ricordare che un’entità con natura sottile sūkṣma-viṣayatvaṃ, si può definire come qualcosa che può generare un prodotto più grossolano di se stesso. I tanmātras sono considerati elementi sottili perché possono produrre dei sottoprodotti più grossolani, ma gli elementi sottili tanmātras sono a loro volta dei prodotti di qualcosa di ancora più sottile, ahankāra. Ulteriormente più sottile di ahankāra, è buddhi. Prakriti viene considerata come la materia ultima, infatti non si può dissolvere in nulla di più sottile. In questo sutra ci viene quindi detto che uno yogi assorbito nella meditazione, può sperimentare qualcosa di ancora più sottile di quanto descritto nel stura precedente e qui indicato con ahankāra e buddhi. Quando si fa esperienza del sottile, predomina la qualità sattvica della mente e una delle caratteristiche di sattva, è la gioia ānanda. Il tipo di gioia o senso di benedizione sperimentato da uno yogi talmente assorbito nella meditazione, per quanto sattvico, resta legato ad una dimensione materiale e quindi prakriti. Ciò che accade in questo stadio e definito come gioia, è un senso di esistenza estremamente sottile, viene definito come un fare esperienza di purusa, che in accordanza con la scuola dello Yoga, non si trasforma non produce evoluzioni.
1.46
ता एव सबीजः समाधिः
tā eva sabījaḥ samādhiḥ
tah =loro ; eva = infatti ; sabijah = con seme; samadhih = assorbimento meditativo
Tutti i processi di direzionamento della mente richiedono un oggetto di indagine.
I 4 stadi di samadhi descritti nei sutra precedenti, vengono indicati come sabījaḥ samādhiḥ, ovvero con-seme sa- bijah, in quanto utilizzano un elemento esterno come mezzo di concentrazione. Che sia grossolano o sottile, si tratta comunque di un supporto esterno ālambana e quindi sabījaḥ samādhiḥ o samprajnata samadhi (come descritto nel stura 1.17) ha quattro declinazioni: savitarka, nirvitarka, savicara, nirvicara. Secondo alcuni commentari, il seme descritto in questo sutra è riferito in senso di samskara o impronta. Abbiamo già visto nei sutra precedenti come ogni oggetto percepito dalla mente lasci un’impronta nella mente stessa. Questa impronta è destinata a “fiorire” finché non c’è un distacco totale, per questo viene utilizzato il termine “seme”. Finché non si ottiene un totale assorbimento in purusa, rimaniamo vincolati alla materia. Nei sutra successivi verrà invece chiarito il concetto di samadhi senza seme asamprajnata samadhi
1.47
निर्विचारवैशारद्येऽध्यात्मप्रसादः
nirvicāravaiśāradye’dhyātmaprasādaḥ
nirvichara = super riflettente; vaisharadye =nella chiarezza ; adhyatma = sriguardo il vero sé; prasadah =lucidità
Allora l’individuo inizia a conoscere realmente se stesso.
Vaisharadya, viene definita come chiarezza, intesa come puro flusso sattvico che pervade la mente citta di uno yogi. Sattva ha una natura luminosa, quando ciò che porta offuscamento o impurezza viene rimosso (rajas e tamas). Quando questo tipo di chiarezza si manifesta in nirvicara samadhi, lo yogi acquisisce la comprensione di se stesso, adhyatma prasadah. Questa intuizione nasce come un lampo di saggezza illuminante, che in maniera istantanea ci fa vedere le cose per ciò che realmente sono. È più o meno un sinonimo di ciò che nel prossimo sutra viene definita prajñā. In questo stato si manifesta non solo la verità di prakriti e purusa, ma anche di Isvara. Ovviamente non c’è anche in questo stato, la possibilità di percepire qualcosa di più sottile della condizione in cui si trova l’osservatore, ma c’è una consapevolezza che mi fa percepire qualcosa oltre me stesso. Esiste un’immagine molto indicativa che rappresenta questa condizione: “così come qualcuno che si trovi in cima alla montagna più alta, riesce a vedere tutto ciò che accade nelle pianure, allo stesso chi abbia salato le altezze della lucidità e saggezza, si libera della sua sofferenza, ma riesce a vedere la sofferenza degli altri”. In questo modo, una persona che soffre vede negli altri felicità rispetto a se stesso/a, mentre una persona illuminata è in grado di vedere la sofferenza in tutti. Questo tema è considerata la prima nobile verità secondo una visione Buddhista della vita e verrà meglio argomentato nel prossimo capitolo.
1.48
ऋतम्भरा तत्र प्रज्ञा
ṛtambharā tatra prajñā
ṛtam= verità ; bhara = situato; tatra = qua ; prajna = saggezza
Allora, ciò che egli vede e comunica agli altri è libero da errore.
Rta, verità, è un vecchio termine Vedico che denota l’ordine che controlla e armonizza l’universo. Nello stato di saggezza, prajñā, non c’è alcuna traccia di conoscenza errata. Con un occhio al prossimo sutra, viene proposta questa riflessione: “ Si ottiene lo stadio più alto di yoga coltivando discernimento verso le scritture, l’inferenza e la meditazione”. Nonostante attraverso i libri si possa comprendere la vita è sofferenza e che l’anima è differente dal corpo, e nonostante si possa giungere alle stesse conclusioni attraverso l’esperienza e la logica, questo tipo di conoscenza teorica non previene la possibilità di fare esperienza della sofferenza, ne tantomeno ci da un percezione diretta dell’anima. Ma quando questa conoscenza è integrata alla pratica di meditazione, si può fare esperienza di quanto appena detto. In questo sutra viene ribadito come il percorso dello yoga sia fatto di esperienza attiva più che di comprensione indiretta. È attraverso l’esperienza che si può giungere ad una conoscenza della realtà.
1.49
श्रुतानुमानप्रज्ञाभ्यामन्यविषया विशेषार्थत्वात्
śrutānumānaprajñābhyāmanyaviṣayā viśeṣārthatvāt
shruta = che è stato tramandato, sacre scritture; anumana = inferenza, deduzione; prajnabhyam = attraverso la saggezza; anya= differente ; vishaya = oggetto; vishesha= il particolare, specifico ;arthatvat = come suo oggetto
La sua conoscenza non è più basata sul ricordo e sull’inferenza. È spontanea e diretta, e per livello e intensità è superiore alla percezione ordinaria.
Il termine viśeṣā, particolarità o specificità, fa parte di scuole di pensiero in cui la realtà manifesta si può suddividere in 7 categorie, due delle quali sono viśeṣā, particolare o specifico, e sāmānya, generico. Nel primo caso c’è una comprensione maggiore e appunto specifica, rispetto al secondo caso in cui è generica. Per avere una vera comprensione, lo Yoga accetta tre forme di conoscenza āgamana (1.7): le scritture śrutā, la logica anumāna e i sensi di percezione pratyaksa, ma li definisce limitati in quanto non danno informazioni specifiche. Le scritture sono dipendenti dalle parole. L’inferenza o la logica sono comunque guidate da una visione generica e limitata es: se si stabilisce che il fumo proviene sempre da fuoco, si ha una conoscenza della situazione ma non si comprende a tutti gli effetti che cosa sia il fuoco. I sensi di percezioni ci possono dare una visione più specifica della situazione o oggetto ma non ci danno una visione sottile. Solo attraverso un’immersione limpida nello stato di samadhi, si può giungere alla specificità viśeṣā, che considera la struttura atomica e subatomica e di conseguenza l’essenza. Questa visione così profonda e specifica viene descritta anche come para-pratyaksa, che trascende i normali sensi di percezione.
In sostanza, le scritture sono degli ottimi strumenti per ricevere informazioni circa il percorso, attraverso la logica possiamo liberare gli ostacoli dal percorso, ma è solo attraverso la meditazione che possiamo arrivare alla verità.
MI VIENE DA RIFLETTERE CIRCA LE RELAZIONI UMANE, NEI CONFRONTI DI QUESTO SUTRA. QUANTO APPENA DESCRITTO MI RISULTA POCO REALIZZABILE NEI CONTESTI ODIERNI. CiÒ CHE PERÒ È POSSIBILE FARE, A MIO PARERE, È APPLICARE LA SOSTANZA. SE LE SCRITTURE POSSONO ESSERE PARAGONATE AD OGNI SORTA DI EDUCAZIONE E LA LOGICA ALLE CAPACITÀ DI INTERAZIONI CHE OGNUNO DI NOI SVILUPPA IN BASE AGLI STIMOLI CHE CI CIRCONDANO, È POSSIBILE PARAGONARE L’ENTRARE IN RELAZIONE ALLA MEDITAZIONE. IN QUESTO MODO POSSIAMO EFFETTIVAMENTE TROVARE UNA VERITÀ CHE NON SI BASI SU MITI, CREDENZE E CAPACITÀ, MA SUL FEEDBACK SPECIFICO CHE OGNI RELAZIONE RICHIEDE. PENSARE DI COMPORTARCI CON TUTTI ALLO STESSO MODO ED IN TUTTE LE CIRCOSTANZE È PRESSOCHÉ INATTUABILE. PER QUESTO UN PRATICANTE DI YOGA, INTESO COME CERCATORE DI VERITÀ, HA LA POSSIBILITÀ DI NON PERPETUARE GLI SCHEMI LIMITANTI KLESA E DI RENDERSI LIBERO DI SPERIMENTARE E FAR SPERIMENTARE UNA VITA PIÙ TRASPARENTE E LIBERA.
1.50
तज्जः संस्कारोऽन्यसंस्कारप्रतिबन्धी
tajjaḥ saṃskāro’nyasaṃskārapratibandhī
tat= che ; jah = nato ; samskarah = impronta nel subconscio; anya = altro; samskara = impronta nel subconscio; paribandhi = ostruzione
Rafforzandosi gradualmente queste nuove qualità della mente, esse dominano le altre tendenze mentali basate sulla falsa comprensione.
Patanjali descrive qui il processo in cui le impronte samskaras dovute a ciò che in 1.48 viene chiamato ṛtambharā jnana, verità sostenuta dalla saggezza, rimangono impresse in citta. Ebbene queste ostruzioni paribandhi, vengono considerate come i pensieri che terminano tutti i pensieri. È come se venisse confermata una verità che non necessita di essere successivamente articolata, viene data per certa. Questo tipo di verità, viene detto, non provoca ulteriori vrtti o agitazione in citta, altrimenti risulterebbero come un allontanamento dallo stato di yoga. Il loro scopo è quindi evitare ò’insorgere di dubbi, depositati come samskara in citta. Così facendo si aumentano le impronte di saggezza nel deposito della mente e il processo, una volta considerato distruttivo per lo stato di yoga citta vrtti, viene ora reso costruttivo per entrare in uno stato di samadhi. Queste impronte di saggezza vengono paragonate ad una spina, utilizzata per rimuovere un’altra spina e sono quindi benefiche allo stato di samadhi. Quando queste impronte di saggezza vengono attivate, portano il praticante in uno stato di chiarezza, tale per cui le impronte disturbanti depositate in citta, vengono rimosse. Infatti le impronte di saggezza sono utili a distinguere prakriti da purusa, mentre le impronte disturbanti operano sotto al velo dell’ignoranza. Vieni quindi ribadito che la mente può funzionare in due modi distinti: per liberazione o per divertimento. Da un lato si alimenta il ciclo karmiko, dall’altro viene distrutto, insieme alla tendenza della mente di cercare appagamento da qualcosa di esterno. Viene fatta una specifica per quanto riguarda il karma, infatti viene detto che il ciclo karmiko che viene eliminato attraverso queste impronte di saggezza, è un ciclo dormiente e non manifesto. Mentre il karma attivato può essere distrutto dal prossimo stato di coscienza chiamato nirbija- samadhi.
1.51
तस्यापि निरोधे सर्वनिरोधान्निर्बीजः समाधिः
॥ इति पतञ्जलि-विरचिते योग-सूत्रे प्रथमः समाधि-पादः
tasyāpi nirodhe sarvanirodhānnirbījaḥ samādhiḥ
tasya = di questo ; api = anche ; nirodhe = riguardo la cessazione; sarva = di tutto; nirodhat = attraverso la cessazione; nirbijah = senza seme; samadhih =meditazione
La mente raggiunge uno stato privo di impressioni. È libera, chiara e trasparente.
Siamo arrivati alla fine del processo logico guidato da Patanjali. In nirbijah samadhi, ogni processo cognito è disattivato. In questo stato, il praticante non ha più alcun tipo di contatto con prakriti, non esiste materia sia nella forma sottile che grossolana. Ora purusa è finalmente consapevole di se stessa. Esiste un’impronta che facilita questo processo, nirodha-samaskara, ora tutti i pensieri sono latenti sarva-nirodha. In 1.17 veniva descritto lo stato di asmitā in cui purusa diventava consapevole di se stessa attraverso citta, l’immagine è di un fascio di luce che diventa consapevole di se stesso guardandosi allo specchio (citta). In questo caso c’è la mediazione della mente/specchio, mentre in nibija-samadhi, purusa è consapevole senza mediazioni.
In questo stato, non viene prodotto alcun seme e quindi nulla viene impresso in citta. Uscendo da una dimensione temporale, l’unica impronta che un meditante può collegare a questo stato è nel realizzare, una volta usciti da nirbija samadhi, che è trascorso del tempo, senza però aver percepito questo scorrere,. Infatti il tempo cessa di esistere in nirbija samadhi. Non attivando alcuna cognizione, è di per se impossibile descrivere ciò che si può sperimentare in questo stato. Tanto meno è cosa semplice descrivere a parole il processo per arrivare a questo assorbimento con purusa. Ciò che viene descritto da alcuni testi e commentari è un processi di discernimento “neti,neti” “non questo, non quello” in cui alle nirodha-samskara viene dato il ruolo di “guardiane” delle vrtti, che portano citta a cessare ogni attività che si possa identificare con prakriti. Arrivati a questo livello di comprensione della mente e della coscienza, la materia non ha più ragione di esistere. Viene infatti detto che le funzioni di citta sono due: generare impronte e quindi collegarsi al ciclo di morte e rinascita samsara o giungere a liberazione nibija samadhi. C’è da fare una precisazione sul concetto di liberazione, infatti purusa è di per se sempre libera, infatti i concetti di vrtti, samsara etc. Esistono solo nella nostra mente. In sostanza la nostra essenza è sempre stata e sempre sarà libera, ciò che è condizionata è la nostra esistenza ed il condizionamento è frutto della nostra mente.